Procrastinare/Non fare oggi quello che potresti fare domani

C’è sempre qualcosa di meglio da fare rispetto a un’incombenza noiosa e ripetitiva. E’ una legge ferrea a cui nessuno sfugge, salvo che non siano le sollecitazioni esterne a obbligarlo. Il problema è che quando procrastini poi ti viene l’ansia, e ti dividi in uno slalom tra i sensi di colpa (sono una merda, dovevo fare quella cosa e non l’ho ancora fatta) e i momenti autorassicuranti (ganzo, posso anche scrivere un post per il blog, per fare quella cosa importantissima avrò tempo domattina, semmai posso anche alzarmi un quarto d’ora prima).

E’ vero che così facendo si vive con un livello costante d’ansia a bassa intensità. D’altra parte un’esistenza fattiva e puntuale genera comunque l’ansia da scadenza, quella che oddioddio mancano quindici giorni alla deadline e mi manca il 2% del lavoro per finire.

A me succede che la tensione si abbassa in prossimità del traguardo quando capisco che farò in tempo a fare tutto e a finire un lavoro. All’improvviso entrano in scena le distrazioni. Che si sovrappongono a intermittenza al lavoro principale. Secondo lo schema ok, devo fare l’ultimo passo, ma prima fammi leggere chi ha comprato la Lazio. Ecco, ho letto, allora devo fare ancora un pezzettino ma uh, vediamo se è arrivata posta. Mannagg, si sta facendo tardi, devo finire il lavoro ma oh, adesso mangio una banana.

Così facendo passano i giorni e poi all’improvviso subentra il crucco e in un tripudio di ein, zwei le tessere del mosaico vanno a posto e si conclude trionfalmente la campagna, finisce l’ansia, si fa strada l’autocompiacimento, ci si rimirano i pollici, si fuma dopo l’amore, si contempla l’orizzonte e si surfa sul bordo dell’ombelico, fino a quando non incombe un’altra scadenza e tu non hai ancora fatto un cazzo.

Dice che è roba da creativi. Non so. C’è questo fatto dell’attenzione che viene disturbata da sollecitazioni esterne di continuo, tipo quando stai scrivendo un post e devi finire ma non ti ricordi cosa volevi scrivere e ti attrae qualcosa che staziona sulla scrivania da giorni, ti viene in mente che devi andare al bagno e mettere i croccantini nella ciotola del gatto e chiudere le persiane e lavarti i denti e cominci a tenere in mano un filo per ogni cosa che devi portare avanti fin quando non sopraggiunge uno stato d’ansia, un poco sottostante, appena appena, un senso d’urgenza che contrae le budella al punto giusto, un senso d’inadeguatezza che dice che merda che sono dovevo fare questa e quest’altra cosa e non l’ho fatta.

Poi tiri un sospiro e scopri che ti stava venendo l’ansia solo perché non avevi chiuso un post sul blog. Ecchessaràmai. E’ dura la vita per chi non soffre d’ansia, inventarsi ogni giorno un delirio ansiogeno dal nulla, far finta di consumarsi in un senso di colpa inesistente, inventarsi delle scadenze non rispettate per far finta di averne. Se la scansione del tempo te la dà il lavoro la vita scorre regolare, come appresso a un metronomo, lunedìmartedìmercoledìgiovedìvenerdì e puoi inventarti il sabato e la domenica. Se ti manca quella tensione tutto rallenta e scopri che senza ansia non c’è bisogno nemmeno del caffè.

Sarà anche una noia, ma scoprire di fabbricare artificialmente un qualche piccolo stato d’ansia per costringersi a stare sul pezzo invece di giacere a pelle d’orso potrebbe essere anche peggio. Per lavorare c’è bisogno di una scansione temporale. A casa il tempo s’intreccia e si dilata, e si finisce per credersi vittime di una procrastinazione che in realtà non esiste. Sta solo nella tua testa. E’ un solipsismo.

Tutti al mare

hqdefaultLeggo sul Messaggero che dice l’esperto che fare il bagno dopo mangiato non è pericoloso. Ora, ammesso e non concesso che l’esperto abbia ragione, e data la sua livornesitudine si può stare tranquilli sulla sua conoscenza del mare, ma non so quanto sulla sua affidabilità tout-court, boia dé, mi crolla il mito dell’autorevolezza delle mamme italiane, già messo a dura prova, è vero, dalle mamme stesse. Vero è che in tempi di scelte autoproclamate consapevoli su vaccini e di atteggiamenti intimidatori nei confronti dei prof più severi, l’autorevolezza dei genitori è in ribasso di continuo. Al mare, comunque, sembra i bambini anneghino quando non c’è nessuno a guardarli e non se si tuffano con una rosetta al salame nella pancia.

L’alimentazione in spiaggia, oggi, è meno rituale che un tempo. Io mi ricordo spedizioni di plotoni di persone viaggiare nei 50 gradi della metro Roma-Ostia con giganteschi frigoriferi portatili, materassini gonfiabili, ombrelloni cabinati, secchielli, palette, salvagente già gonfiati, sleppe di pizza bianca alla pala farcita con la mortadella, con prosciutto e fichi oppure rossa, ma quella del forno, che si ammollava nel suo umido mantenendo viva la crosta della cornice.

E poi cocomeri, almeno uno, di quelli americani, giganti, in genere inflitti a figli adolescenti divisi tra il Corriere dello sport e le generose scollature delle signorine accaldate nel mezzo che procede lentamente verso il litorale, e passa da Acilia e da Vitinia, dove accanto ai binari c’era una casamatta che mi faceva impressione, tale e quale a quelle disegnate sui giornaletti di Super Eroica.

E poi un pallone, i racchettoni, il going, le click-clack, le formine, i tappini, la maschera, le pinne. Tutto stipato sotto il sedile, sulle ginocchia o in braccio alle matrone, i costumi interi coperti con una gonnellina e una camicetta, le ciabatte infradito, gli zoccoli, i ventagli, la voglia di starsene una giornata al sole, sedute su una seggiolina infilata nella montagna di roba al seguito, con l’urlo pronto a richiamare i marmocchi e il pensiero rivolto alla cena per i mariti al lavoro.

Nel frigo, portavano: polpette fritte, fredde, squisite. Un paio a testa. Un ciotolo similtupperware con la parmigiana di melanzane. Per 6/8 persone. Una decina di fettine panate. Un limone da tagliare a spicchi. Una pasta fredda detta alla checca, con pomodori, basilico e mozzarella, oppure una pasta col sugo di tonno, che da freddo era ancora squisito. Piatti di carta. Posate di ferro. Un bustone di frutta da mettere vicino al cocomero: pesche giallone, belle spaccarelle, albicocche che te le magni una a una, uva, melone, susine gialle e rosse. A parte, una decina di rosette e la pizza di cui sopra. Un pezzo di pane casareccio. Una busta di cornetti conservati di marca Cerbiatto. Un thermos di caffè. Un paio di boccioni d’acqua, ché di plastica non c’erano. Bicchieri di plastica di quelli periscopici riusabili. Grand Hotel. Fotoromanzi Lancio. Giornalini assortiti da leggere, tipo Geppo, Soldino, Tiramolla, Lando, Jacula, Zora. Un mazzo di carte da briscola. Un giornaletto di enigmistica di quelli scamuffi con i diagrammi e le vignette disegnate male.

Il regime alimentare di una giornata marinara era piuttosto articolato: colazione a casa, tazza di caffellatte fumante dimenticato sul fuoco che fa la pannetta sopra, con una bella fetta di pane o mezza rosetta o un cornetto di quelli conservati.

Via andare di corsa sul tram (per anni c’è stato, però, un torpedone che partiva da Centocelle e portava a Ostia, partenza la mattina alle sette, tragitto Centocelle-Arco Travertino-Acqua Santa-Cristoforo Colombo-Ostia pontile stabilimento Vittoria-Ostia verso il Tibidabo) fino a Piramide, da lì al trenino per il mare o alla metro per Ostia. Improperi agli adolescenti distratti e addormentati. Lagne dei più piccoli.

In vettura si consuma parte della pizza, il resto se ne va arrivati in spiaggia, grosso modo verso le dieci, montata la tenda-cabina, spolti e rivestiti col costume tutti gli astanti, ripescati in acqua gli adolescenti, coperte le fronti ai piccoli, svolta funzione dirimente nelle prime liti per le formine e le palette e i rastrelli, medicate le bue prodotte dalle secchiellate e dai mozzichi, portati i più piccoli a fare la pipì in acqua, il tutto a un livello sonoro tipo Mach 1 che include la conversazione con la tribù della tenda-cabina accanto.

Terminata la distribuzione dei cornetti e delle pizze si allestisce il pranzo, spesso servito su tavolini a valigetta completi di sedie pieghevoli, affidati in genere ai figli più grandi in quanto ingombranti e pesanti quasi come il frigorifero. Tavoli che tornano buoni, poi, per giocarci a briscola e farci le parole crociate.

I grandi mangiano la pasta seduti al tavolo, i piccoli siedono sul telo dopo essere stati asciugati, la pelle accapponata, le labbra che le madri immaginano livide per l’ipotermia incipiente, le dita lesse. Dopo la pasta, le melanzane e la fettina, che ai piccoli viene data inserita in una delle rosette che col caldo e l’esposizione all’aria si sono fatte gommose. Cocomero e melone completano l’opera, mentre le pesche e il resto serviranno per la merenda, insieme al cremino, al croccante, al cornetto Algida che saranno acquistati nello stracaro baretto/ritrovo locale dove i fidanzati si recano per un crodino, un’acqua brillante e una rosetta col presciutto, le marlboro infilate nel costume lui, lei coperta dall’asciugamano messo a mò di pareo, con gli zoccoli col tacco.

L’allopiamento postprandiale ti sorprende quando meno te l’aspetti e ne ha ben donde, data la quantità di cibo ingerito. Si cerca l’ombra sotto l’ombrellone-cabina che si espande allargando i tendaggi. La pennica spietata miete vittime tra i piccoli, mentre le mamme tra una sventolata e l’altra si assopiscono rimanendo parzialmente vigili.

I fidanzati, qualche metro più in là, ne approfittano per scambiarsi morbidezze e ispidità, alcune parti del corpo staccate mentre altre aderiscono come col bostik suscitando commenti caustici delle mamme che sibilano che ce stanno i regazzini.

Il sole scintilla sul pelo dell’acqua mentre si annuncia con il gracchio dell’altoparlante la barca che porta i bagnanti a prendere un po’ d’aria al largo. Le mamme resistono, borsellino in mano, al richiamo delle sirene. La barca riparte al ritmo di una qualche Donna Summer. E’ summer, del resto. Il bus riparte alle 7, la metro un po’ prima, ma quando il sole si abbassa sarebbe il momento migliore per rimanere.

Si riparte con i piccoli cotti che si addormentano fachiri sugli strapuntini più improbabili. Le mamme, esauste, si sfogano inveendo contro gli adolescenti distratti e persi dietro le scollature dell’andata, ora arrossate dal sole e profumate di creme misteriose. A casa attendono mariti da accudire, alici da friggere, sughi già pronti con la conserva fatta in casa e il basilico coltivato al balcone in una latta di tonno riciclata.
Mentre tramonta il sole, le zanzare scendono dalla cappa per la cena. L’attesa per la doccia è lunga e i piedi insabbiati hanno già seminato per casa granelli in quantità sufficiente a ballarci sopra il tip-tap.

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Risalire dalla Foce

La Foce è una grande tenuta che si trova tra Chianciano e la Val d’Orcia, in provincia di Siena. Iris Margaret Cutting e Antonio Origo, appena sposati, si trasferirono a viverci, nel 1924, ristrutturandola e fondando un’importante azienda agricola che contribuì allo sviluppo della zona, in quel tempo bella e poverissima.

Durante la seconda guerra mondiale la villa divenne un luogo sicuro dove trovarono rifugio profughi, soprattutto bambini, partigiani e militari alleati scampati alle grinfie di tedeschi e fascisti. Iris Origo e suo marito rischiarono in prima persona e misero a disposizione le loro ricchezze per salvare dagli orrori della guerra quanta più gente possibile.

Iris_Origo_DonataIris, storica e scrittrice anglo-americana, documentò in un libro scritto in forma di diario, “La Guerra in Val d’Orcia”, la vita vissuta alla Foce in quei giorni terribili. Quando il fronte passò per la Val D’Orcia gli ospiti della tenuta si trovarono in grave pericolo, esposti al passaggio delle retrovie tedesche in ritirata e al fuoco delle truppe alleate che le incalzavano. Gli Origo decisero di lasciare la tenuta per trovare riparo nella vicina Montepulciano e guidarono i bambini e gli sfollati in una marcia verso la salvezza, tenendosi il più possibile lontano dalle strade per evitare di rimanere esposti al fuoco dei caccia che martellavano la zona. La marcia fu penosa, per la paura, perché alcuni bambini non erano in grado di camminare, perché sul tragitto erano presenti cadaveri non rimossi, c’era il rischio delle mine e il fuoco dell’artiglieria e non c’erano garanzie su quello che si sarebbe trovato una volta giunti a Montepulciano. Alla fine il gruppo arrivò sano e salvo a destinazione.

La marcia di Iris Origo e dei bambini della Foce viene ricordata, dall’anno scorso, con una rievocazione. Sabato scorso ho partecipato anch’io, con i miei cari amici Antonio e Valentina. E’ stata una bellissima esperienza. Abbiamo raggiunto la Foce attraversando il paesaggio incantato della Val D’Orcia, adagiata ai piedi del profilo severo dell’Amiata. Era mattina prestissimo ma già faceva caldo. Siamo arrivati sul posto del raduno per primi, il che ci ha fatto temere di aver sbagliato luogo, data, ora dell’appuntamento.

Timore fugato nel giro di qualche minuto, con l’arrivo di un folto gruppo di persone. Una quarantina di camminatori che si sono avviati con bel passo verso la lontana meta (14 km), dopo la lettura rievocativa di qualche pagina tratta dal libro di Iris. Un cammino alternato tra strada e bosco, in mezzo agli ulivi e sul dorso di un crinale, all’ombra o sotto un sole infuocato, chiacchierando e facendo amicizia, sapendo di compiere, col solo marciare su quella terra riarsa e spaccata dalla siccità, un gesto carico di valore simbolico. Una testimonianza che serve a non lasciar andare il ricordo di quei giorni terribili, in cui tanta gente mise a repentaglio la propria sopravvivenza per resistere, aiutare, proteggere persone in fuga dall’orrore di una guerra che era comunque vicina, fuori dalla porta di casa.

Qualcosa in cui tutti erano coinvolti, impossibilitati a sottrarsi a sollecitazioni terribili: fame, paura, persecuzione dell’occupante nazista e dei suoi complici. Abbiamo sudato su quella terra, riconosciuto le strade, sbagliato qualche svolta, saltato qualche steccato, pensato ai fazzoletti bianchi che erano l’unico scudo disponibile per quel gruppo di anime transumanti. In viaggio dalla paura e dal fuoco verso la speranza e la vita, accompagnate dall’ansia degli adulti e forti del candore dei bambini.

Il gruppo della Foce arrivò a Montepulciano da San Biagio e fu accolto dalle gente del paese, che si prese cura, per quanto possibile, di tutti. Noi abbiamo fatto lo stesso, sbuffando e sudando, ma godendoci il ricordo di quel viaggio ripercorso e per questo fatto nostro. Non c’è stata paura, solo la bellezza dei luoghi, la dolcezza delle ciliegie e delle albicocche di cui abbiamo approfittato, strada facendo, ogni tanto una sosta, un sorso d’acqua, una lettura, una testimonianza fatta da bambine che leggevano poesie e suonavano melodie. Tra sorrisi e chiacchiere fatte sottovoce, ascoltando con piacere gli altri e dicendo ogni tanto la propria.

Ci ha ricevuto nel suo bel giardino la famiglia Bracci, che quel gruppo di viandanti impauriti e affamati accolse, dando fondo a viveri e coperte. Tutti stretti in un abbraccio mentre il mondo impazzito, fuori, regolava i conti con la follia nazifascista.

Una storia che ci ricorda che si può restare umani mentre viene meno qualunque punto di riferimento e la vita è appesa a un filo che si può troncare all’improvviso. E ci insegna, perciò, che c’è sempre spazio per farlo. Dipende da noi e non dalle circostanze.

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Amici

Ieri ho rivisto dopo parecchio tempo un amico carissimo. Dopo averlo salutato mi sono ricordato che lui è stato il mio primo vero amico “del cuore”, quello che cascasse il mondo tutti i giorni passavo a chiamare a casa per uscire. Abbiamo condiviso tante cose anche se siamo diversi. Crescergli vicino mi ha fatto bene, è sempre stato una mano santa per la mia autostima e mi ha aiutato molto a tirare fuori quello che avevo dentro di buono. Tempo fa gli chiesi con un messaggio un consiglio su come muovermi nell’intricata vicenda lavorativa recente. Mi ha detto una cosa che mi è risuonata nella testa per settimane, un consiglio che non ho seguito e ho sbagliato. Avrei anticipato certe situazioni e oggi mi troverei più avanti nel mio percorso. E’ un uomo estremamente intelligente, coraggioso, che nella vita ha saputo crescere e cambiare molto, anche un po’ come aspetto fisico. Mi ha detto cose che mi hanno fatto effetto, anche stavolta. Mi rendo conto che il periodo in cui la mia vita s’è un po’ complicata coincide con la fase, lunga, in cui ci si è persi di vista. Tutti seguiamo delle scie luminose che possiamo scambiare, a volte, per maestri o per punti di riferimento. Non ho mai guardato a lui in questo modo, riconosco altre due o tre persone, nel tempo, come guide fondamentali, altre come compagne senza le quali le cose sarebbero andate parecchio peggio. Con lui siamo partiti insieme a scoprire il mondo e solo oggi mi pare di capire davvero quanto sia stato importante averlo al fianco per tanti anni. E’ stato una chiave per rompere un isolamento pericoloso, un farsi piccoli per resistere alla paura che non avrebbe portato a niente di buono. Se sono come sono, nel bene più che nel male, un po’ lo devo a Luciano, di sicuro.

Attilio Lolini (1939/2017)

Abbiamo lasciato
tracce in giro
frammenti
si spegne il millennio
muore goffo
estraneo
anche la nostra
giovinezza
si spegne
è tempo di sbaraccare
infingardi dilettanti
barammo malamente
sull’orlo
di questo secolo
infame
ah le mie carte truccate
tutte sul tavolo
presto
è tempo
partiamo
le notti saranno
sempre più lunghe
e i rimorsi
non daranno
tregua
(Attilio Lolini, 1939/2017)

Parlami di te

a sapertelo spiegare
che filosofo sarei
(Baustelle)

il mondo è tutto ciò che accade
(Wittgenstein)

Io non capisco niente di filosofia, sono un ragioniere ma a ripensarci oggi che cominciano gli esami di maturità se mi fossi esaminato mi sarei bocciato, se non altro per darmi una lezione. Non si va in giro tutti sparpagliati in quel modo, nemmeno se si è adolescenti.

Leggo di tutto, comunque, e ho le mie idee, ho trovato pure un modo di esprimerle grazie a internet, che se ci pensi bene capisci come mai nessuno ci porta a casa un dollaro ma tutti ci hanno scommesso sopra le mutande.

Su internet ci stanno tutti. O meglio, diciamo che stanno tutti su facebook. Che sta lì e ti invoglia: a cosa stai pensando? è la domanda fissa nel riquadrino dello status. Se ci pensi è un foglio bianco. Hai la tastiera davanti e puoi scrivere qualunque cosa su tutto. Non capisco come mai, allora, ci sia tanta gente che si diverte a condividere pensieri preconfezionati da altri sulle cose che accadono tutti i giorni.

Non è necessario costruire una teoria sul mondo per esprimere un pensiero personale e se lo lasci andare e qualcuno ti risponde ti puoi fare un’idea su quanto stia in piedi il tuo pensiero, quanto sia condivisibile, e puoi accettare di cambiare punto di vista, apprendere cose che ti portano a pensarla diversamente o a rafforzare le tue convinzioni.

Se fai copincolla perché tiziocaio l’ha detto che suona bene che sforzo fai? Nessuno. Questo vale per tutto, dal pensiero sullo ius soli a quello sulla tazzina di caffè del mattino. Però te nella testa ce le hai, le immagini che hai costruito per raccontarti i fatti. Insieme a quelle con cui ti racconti i ricordi, alle cose che ti dicevano gli altri e che ti sono rimaste impresse.

Perché non dirle? Perché non dire, che so, com’è che ti piace il mare e perché oggi ti senti triste? Non è meglio che alimentare catene di Sant’Antonio a suon di “vediamo chi ha il coraggio di condividere”? A chi giova tutta quella, scusami, merda? Cosa porta in questo mare confuso di conversazioni che fanno un groviglio che trova senso solo nel circoletto piccolo in cui scambi le tue impressioni con i tuoi amici più stretti?

Perché non ci parli di tuo padre o di tuo nonno o della pappa col pomodoro o dei gatti siamesi o del pane cotto a legna o della Simca 1000 o dell’arte della manutenzione della motocicletta? Sono sicuro che hai tante cose da raccontare che i tuoi amici leggeranno, e ti diranno che sono contenti e che si ricordano e che secondo loro si fa anche così e che è buona anche la zuppa di pane e le Lucky Strike erano meglio delle Camel.

Non serve sapere né sforzarsi, serve non usare quello che vomitano altri, spesso costruito a bella posta, per fare una conversazione che puoi fare con parole tue, ben più ricche di senso proprio perché a dirle già si misurano con la logica che, diceva sempre quel grande filosofo, stabilisce se possono far parte del mondo oppure no.

E poi se fai fatica con le parole ci sono le immagini. Vai su instagram e posta le tapparelle di casa tua. La gente ti dirà che sono belle, qualcuno che lo fa si trova sempre, anche se le foto sono sfocate e tu sei venuto con la faccia a banana.

eLezioni private

Ecco lo spoglio a oggi delle mie eLezioni private. Fonte: Facebook.

Politici:
Barack Obama piace a 54.664.095 persone, tra cui 77 miei amici
Donald Trump piace a 22.470.144 persone, tra cui 7 miei amici
Angela Merkel piace a 2.449.693 persone, tra cui un mio amico
Emmanuel Macron piace a 1.748.150 persone, tra cui 4 miei amici
Theresa May piace a 430.530 persone e a nessun mio amico
Sergio Mattarella piace a 29.051 persone, tra cui 7 miei amici
Matteo Renzi piace a 1.088.498 persone, tra cui 72 miei amici
Silvio Berlusconi piace a 963.666 persone, tra cui 12 miei amici
Beppe Grillo piace a 1.993.381 persone, tra cui 65 miei amici
Angelino Alfano piace a 123.582 persone, tra cui 2 miei amici
Matteo Salvini piace a 1.835.499 persone, tra cui 32 miei amici
Giorgia Meloni piace a 698.079 persone, tra cui 26 miei amici
Paolo Gentiloni piace a 41.068 persone, tra cui 18 miei amici
Laura Boldrini piace a 239.634 persone, tra cui 53 miei amici
Pietro Grasso piace a 78.635 persone, tra cui 12 miei amici
Alessandro Di Battista piace a 1.340.471 persone, tra cui 52 miei amici
Luigi Di Maio piace a 1.052.732 persone, tra cui 33 miei amici
Virginia Raggi piace a 823.879 persone, tra cui 54 miei amici
Maria Elena Boschi piace a 137.476 persone, tra cui 22 miei amici
Pierluigi Bersani piace a 197.340 persone, tra cui 35 miei amici

Partiti:
Partito Democratico piace a 203.327 persone, tra cui 28 miei amici
Forza Italia piace a 159.796 persone tra cui 3 miei amici
MoVimento 5 Stelle piace a 1.069.652 persone tra cui 23 miei amici
Lega Nord piace a 335.510 persone tra cui 4 miei amici
Sinistra italiana piace a 114.510 persone tra cui 16 miei amici
Partito della Rifondazione Comunista piace a 60.772 persone tra cui 11 miei amici
Fratelli d’Italia – Alleanza Nazionale piace a 144.848 persone tra cui 8 miei amici
Casa Pound piace a 211.023 persone tra cui 12 miei amici
Forza Nuova piace a 219.602 persone tra cui 3 miei amici
Radicali italiani piace a 49.758 persone tra cui 12 miei amici
Alternativa Popolare piace a 10.025 persone tra cui 2 miei amici
Articolo UNO – Movimento Democratico e progressista piace a 16.021 persone tra cui 1 mio amico

Life in a day

Stamattina mi sono svegliato con una strana voglia di ascoltare i Simple Minds. Non so perché. Sono partito canticchiando Glittering prize, che nella mia testa è un’immagine degli anni ’80, ma non è quello il mio ricordo più nitido del gruppo. New gold dream era un bellissimo disco, piaciuto molto quando è uscito, ha segnato il successo, la svolta, il cambiamento di vita per questi ragazzotti scozzesi che avevano fatto già quattro bei dischi, però per me i SM erano la sequenza, nell’ordine, I travel – Life in a day – Chelsea Girl – Changeling, come da cassetta registrata. I travel fu il primo pezzo che ascoltai, lo passava Punto radio a Roma, che ascoltavo appena arrivato a casa da scuola. Punk, new wave, un po’ di metal e tanta roba buona. Un giorno accesi la radio e, credo fosse Fabio Max il Dj, uno molto fantasioso e autoreferenziale, passò questo pezzo velocissimo, saltellante, che sembrava diverso da tante altre cose. Mi piacque molto, mi piacquero loro, mi piacevo io. Era una fase in cui bisognava ingegnarsi per scoprire la musica e le informazioni erano poche, non c’era internet e mi sembrava che l’unico canale dove attingere informazioni fosse il Mucchio Selvaggio. Oggi tra il web e spotify si può ascoltare tutto e sapere tutto di tutti ma non c’è più quella tensione. Vecchiaia sopraggiunta o incombente. per parlare con cognizione di causa di musica occorre seguire, essere informati, fare sforzi non indifferenti. L’ho fatto per quindici/vent’anni, ho cercato dischi, studiato e catalogato dati, imparato parecchie cose. Suonando la chitarra, anche se da poco e non in maniera eccellente, mi si riposiziona la musica quando la riascolto, c’è roba che amavo che mi cala un po’ e roba che mi piace molto più adesso di allora. I Simple Minds erano un bel gruppo, lui poi si sposò, mi pare, con Chrissie Hynde, che mollò per lui un padreterno come Ray Davies dei Kinks. Chissà cosa ci avrà trovato. Spero di avervi fatto venire voglia di riascoltare qualche roba polverosa: Se volete la vita facile fatevi i vostri Don’t you e Alive&Kicking, se siete più raffinati incarrate New Gold Dream e Sparkle in the rain, se vi sentite ancora giovanotti mettete Real to real o Life in a day. Su spotify ve li tirano appresso. Io in ossequio all’intuizione mattutina appresso invece vi allego la simpatica I travel. Abballate. Consiglio.

 

 

Cercando Gloria

La vicenda di Gloria Trevisan e del suo fidanzato Marco Gottardi, dispersi a Londra nell’incendio della Grenfell Tower, è davvero triste. Lascia attoniti. Innesca reazioni viscerali che sono comprensibili perché ci ricordano che partecipare al dolore di qualcuno è un gesto che unisce e che fa comunità ed è edificante in assoluto, gratificante per chi lo fa e anche, se fosse possibile davvero, minimamente consolatorio per chi in queste ore si dispera per il compiersi dell’irreparabile.

La comprensibile, addolorata reazione del padre di Gloria, che dice che tutto questo non sarebbe successo se qui le avessero offerto un lavoro serio, va accettata per quello che è: lo sfogo di un uomo distrutto dal dolore. La scelta professionale della figlia, forse, è stata obbligata, ma viviamo tempi in cui certe scelte si fanno con molta più facilità e in ambito familiare vengono vissute come separazioni dolorose, ma spesso sono necessarie per chi segue un percorso di crescita personale e professionale.

Chi riprende il discorso per lamentarsi della situazione italiana può avere le sue ragioni o meno, non dovrebbe però dimenticare, a mio parere, che ci sono mille altre occasioni più adatte per dirlo. Lasciamo parlare il dolore dei congiunti e riflettiamo sull’opportunità di usare qualunque evento come strumento per fare politica, perché alla fine di questo si tratta. E restare umani significa anche fermarsi un passo prima.

 

Gruppo vacanze Amatrice

Stasera ho cucinato un piatto di spaghetti all’amatriciana per un ragazzo giapponese e uno svizzero. Ne abbiamo spazzolati 7 etti e mezzo in pochi secondi. Faceva proprio caldo, ho fatto un pezzo di strada sotto il sole camminando di buon passo e sono rimasto sfiatato, ho anche incontrato una mia cara amica e non l’ho riconosciuta, facendo la mia gaffe preferita. Ho pensato all’estate che è arrivata e mi è venuta in mente Amatrice.

Non per ricordarmi del terremoto, dei danni, dei ritardi della ricostruzione, ma che dico ritardi, ancora è tutto di là da venire. Non ho la forza di entrare in una polemica che riguarda le persone più colpite dal sisma, rispetto a loro mi sento in debito come cittadino e basta. No, vorrei ricordarmi di quando ad Amatrice ci andavamo a prendere il fresco, in vacanza o nel weekend.

Arrivavamo su, scendevamo dalla macchina, ci veniva incontro qualche faccia del paese che salutavamo. Ci accoglievano con il solito “ti fermi?” che ti faceva capire che avevano aspettato questo momento tutto l’anno e che finalmente la bella stagione riportava gli amici, le feste, le mangiate, i balli, i racconti della sera sotto le stelle, facendo piazzetta fino a tardi, col fresco che ti sale piano piano e te lo godi tutto pensando all’inferno metropolitano.

Quando torneremo in vacanza ad Amatrice? Ma anche ad Accumoli, Arquata, Visso, eccetera. Quando passeggeremo per Corso Umberto e torneremo a sederci per bere un caffè? Quando risaliremo sui sentieri dove siamo cresciuti per andare in montagna ciascuno alla propria fonte, alla madonnina, alla croce, al bosco a fare funghi, al lago? Quando rigiocheremo il torneo delle frazioni? Quando rifaremo la ‘ncotta con le patate e la panonta col prosciutto infilzato nello spidone? E le pizze fritte? E le magnate di pecora in montagna? Quando risentiremo suonare le ciaramelle e la saltarella in una piazza pulita, con i festoni e le bandierine e la gente seduta che fa cornice tutto intorno?

L’inverno è stato lungo e amaro. Prima del maledetto 2016 era sempre così, era un inverno di solitudine e freddo, passato a prepararsi per l’estate, chi stava su e aspettava, chi stava altrove e lavorava aspettando le ferie, pregustando le gioie del ritorno al paese. C’è gente che non ci poteva rinunciare e gli toccherà farlo, e chissà fino a quando. Le ore passate su, adesso, sono ore rubate. Le perdi a contare i passi in mezzo alle macerie, a chiudere gli occhi immaginando sia ancora in piedi quello che non c’è più, a rivedere le case, le stalle e i pagliai crollati com’erano, con la gente che ci entrava e ci viveva, e ci lavorava. Mieteva e trebbiava, rimetteva la legna e il fieno, ricavava le patate, aggiustava la staccionata, ferrava potava, falciava, coglieva, fruttava, puliva, asciugava, preparava la brutta stagione che presto, sempre presto sarebbe tornata. Lo si sentiva da come cambiava il vento, dal rumore delle foglie, dall’odore della terra sempre più bagnata. Lo si sapeva quando si vedevano scendere le pecore per tornare a quote più basse e all’aria temperata.

Prima, però, c’era stata la festa del paese, la messa tutti vestiti bene, le pizze fritte, gli auguri di buon ferragosto, le chiacchiere con compari, cugini e qualche faccia nuova arrivata al seguito di gente del posto. C’era sempre una corsa in montagna da fare, un bastoncino da intagliare, una macchina da lavare, la carne buona da cucinare. L’osteria e lo spaccio. La visita ai parenti e agli amici della frazione vicina. La partita a briscola. I baci alle ragazze. La morra. I girini al fosso. La caccia alle vipere. Non c’è più niente.

La foto qua sotto l’ho trovata sul web facendo lo slalom tra le foto delle macerie. Ci sono solo foto di macerie, vigili del fuoco, zone rosse, palazzi crollati, autorità in parata, gente che piange e cerca di riorganizzarsi, chi fa volontariato e chi beneficenza, chi non sa cosa fare e scrive per farsi coraggio o per sfogarsi. E arrivano le notizie tristi della gente che si arrende e di quella che tenta di approfittare della situazione per fare cose turpi. Questi nove mesi hanno cambiato i connotati anche alla memoria. Non so quanti potranno andare in vacanza nella zona, qualcuno ci vive ma manca tutto. Anche il coraggio di affrontare la notte con la paura di tornare a sentire quel rumore devastante che si mischia alle grida dei tanti, troppi che sono morti.

Sento di un brutto terremoto a Lesbo, in Grecia, con danni ingenti e poche vittime. Mi chiedo perché sia successo tutto quello che è successo. Non so rispondermi, ma so che fa caldo, sì, che comincia un’estate.
Senza Amatrice. Chissà per quanto.

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