La libertà è giovane

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Oggi guardavo un Combat film sulla liberazione di Roma, con molte sequenze a colori. Sono rimasto sorpreso dall’apparente attualità delle immagini. Poi ci ho riflettuto meglio e ho concluso che quello che me le ha fatte sembrare attuali è il ricordo ancora vivo delle immagini (per fortuna di pace) che ho visto da bambino.

E’ bastato un conto semplice: sono nato nel 1962, a 17 anni dalla fine della guerra.
I bambini che ho visto nel filmato erano vestiti come vestivo io, le mie sorelle, i miei compagni di scuola. Vestitucci che sembrano cuciti a mano, magari riattati e passati di figlio in figlio, come si usava allora.

Ho pensato, poi, a quello che accadeva 17 anni fa: era il 2003, pare ieri.
C’era già stato l’11 settembre, Genova e tutto quanto. Ho ricordi molto vivi di me stesso nel 2003, che è stato un anno per molti versi di svolta personale, che preparava un 2004 in cui succedevano le cose.

Quel filmato, insomma, mi è parso attuale perché era molto vicino alla mia nascita e alla mia infanzia. Mi sono ricordato che a Roma c’erano tracce ancora vive della guerra, anche se molto era stato cancellato dallo sviluppo successivo. Benessere repentino, qualche conquista, magari illusoria. Progresso.

Così mi sono ricordato che la guerra c’è stata l’altro ieri, e che tante persone possono ancora raccontarla per averla vista, anche se il Covid-19 ne ha eliminate un bel po’.

Che quello che si celebra oggi, a dispetto di chi vorrebbe spacciarlo per un anacronismo (come se la nostalgia del fascismo fosse fresca fresca), è più che mai attuale.

La conquista della libertà, per quanto la si dia per scontata, è recente.
E le notizie che arrivano da Paesi vicini, soci, alleati, vedi Ungheria o Turchia, dicono che non è garantita per sempre, se non la si difende.

Coppa Atac/Cobram, prima edizione

fantozzi

Si parla di forte contingentamento sui mezzi di trasporto pubblici: a Roma, per esempio, sarebbero solo 20 i posti utilizzabili sul bus. Ora, chi si è spostato per Roma sa che i trasporti pubblici su gomma spesso riservano attese disperatissime che si risolvono nell’assalto alla diligenza, che nell’ora di punta anche sulla metropolitana è la norma.

Il fatto che l’utilizzo dei mezzi si limiti al 40% esaspererà questi problemi, mentre l’ovvio uso alternativo di mezzi di trasporto propri farà esplodere la carenza cronica di parcheggi, che di norma si risolve, in parte, con sosta selvaggia e macchine sui marciapiede, sulle strisce pedonali, sui varchi per disabili, doppie e triple file eccetera eccetera. Faranno festa i parcheggiatori abusivi, mentre per i cittadini arriverebbe un forte incentivo all’uso della bici, con corsie riservate disegnate con i new jersey.

Immagino l’esercito di anziani che utilizza normalmente i bus che arrancano per i sette colli e le vecchiette che vanno al cimitero scattando sui pedali e tenendo i mazzi di fiori in bocca. Le vecchiette-Moser che si gireranno arrabbiate per invitare le vecchiette-Saronni a non sfruttare sempre la scia e a prendere il vento in faccia pure un po’ loro…

Di buono c’è che la Coppa Cobram vedrà una nutrita e finalmente tonica partecipazione.

Fase x – appunti su cose da fare quando finiranno gli arresti domiciliari

  • Andare al mercato ortofrutticolo, comprare delle olive greche e mangiarle passeggiando al sole, sputando gli ossi più lontano possibile. Meglio se il mercato si trova in Grecia. Meglio se a Kerkyra.
  • Trovare un ristorante in riva al mare, di quelli che hanno la veranda vista mare o, alla peggio, di quelli con le vetrate, ma sempre vista mare. Mangiare una fritturina,  bere un bicchiere di vermentino o una birra bella fresca. Posti che visualizzo a occhio: Procchio, Panarea, Porto Santo Stefano, Sirolo, Muggia, Assos, San Vito lo Capo, Castlecove beach, Solanas. Non vincolanti (va bene pure Anzio). Varianti gastronomiche: prawn saganaki, seafood chowder.
  • Staccare da tutti i dispositivi connessi, ma prima organizzare un raduno tutti contro tutti nei posti più spaziosi possibili, dappertutto. Lì ci si tocca, o se non si può si mima il contatto fisico. Senza conoscersi. E si fa un picnic planetario. Woodstock, ma che si canta noi.
  • Guidare senza meta andando in una direzione generica. Tipo: verso il sole, se non c’è. L’ho fatto un paio di volte e il sole l’ho trovato a Genova, la prima volta, e a Castelluccio di Norcia, la seconda, sempre partendo da Siena, che non si dica che sono uno che si arrende.

Realtà e finzione

Ho un doppio problema con la rappresentazione della realtà. Guardavo, giorni fa, il film che racconta la storia di una finale epocale tra i due campioni a Wimbledon e, per quanto il film non fosse brutto, trovavo assurdo guardare due attori che facevano finta di giocare a tennis come due campioni, con inquadrature sghembe e smozzicate che sono servite a far finta che si trattasse di gioco vero.

Non sono mai stato un appassionato di tennis ma li ho visti giocare, e niente vale a raccontare quella storia come le immagini vere. Per narrare due retroscena sulla vita di Bjorn (il film è Borgcentrico di brutto, essendo prodotto perlopiù svedese) si perde tutto il bello del gioco, che era esaltante. Un documentario avrebbe fatto molto meglio, invece di filtrare la realtà ci saremmo abbeverati alla fonte.

L’altro problema, al contrario, ce l’ho quando guardo film o serie che si sviluppano pretendendo siano sostenibili situazioni palesemente scollate dalla realtà. Odio certi temi abborracciati e certe incoerenze, ma poi mi ricordo che si tratta di film e che non devono per forza raccontare storie vere o verosimili. Per quelle c’è, appunto, la realtà. Il film potrebbe raccontare il sogno, o l’incubo, di chi lo ha scritto, che lo vive in proprio o lo fa vivere a dei personaggi, magari sognando di fare cose, o spaventandosi, o immaginando, creando, sentendosi dio

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Vegetariano a chi?

piatti yogaHo sempre pensato che lo spezzatino di cinghiale si potesse digerire anche con un vairasana, e che per smaltire una sbornia un buon metodo poteva essere uno shavasana lungo mezza giornata. Col tempo, poi, uno impara a contenere gli eccessi alimentari, o almeno a comportarsi in modo da convivere con i sensi di colpa crapuloni.

Per chi è in cerca di strategie alternative al maiale, però, ci sono i deliziosi libri dell’Ippocampo, collana Pret à cuisiner, bellissimi da vedere, ricchi di fotografie e con un prezzone economicissimo.

Le ricette sono golose, se riuscite a concepire di mettere in tavola roba vegetariana. Capisco che la prospettiva vi spaventi, ma ci sono momenti in cui una bella insalatona sgrassante s’impone.

Tipo, la sera del pranzo della sporcellata, in cui avete ingurgitato sette portate di origine suina, o il giorno dopo un banchetto nuziale, oppure alla fine delle feste natalizie, o, peggio, nella terribile settimana di preparazione alle analisi del sangue, quando tentate di barare sul colesterolo.

Scoprire le virtù del cibo vegetariano, magari accoppiato, come nel libro dei piatti yoga, alle singole posizioni, vi aprirà nuovi mondi: ricette per colazione, pranzo, cena, dessert, condimenti e salse, aperitivi, feste. Da leccarsi i baffi. Poi si può sempre aprire il frigo, nottetempo, in cerca di quel prosciuttino che si affetta pure da Vald’o…

Raccontava e resisteva

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Ci sono scrittori che consideriamo amici, gente con cui si potrebbe stare a chiacchierare a nottate, bevendo vino, fumando sigari e ascoltando racconti di un mondo lontano che per un periodo, bellissimo e terribile, abbiamo sentito come nostro. L’America Latina, e soprattutto il Cile.


Luis Sepulveda, uscito indenne dal tritacarne delle prigioni di Pinochet, il dittatore che ammazzava i poeti, ha attraversato 70 anni da vero ribelle, scanditi da decine di libri e da una visione lucida del mondo, lottando contro i fascismi e le diseguaglianze con la parola scritta e con la militanza, quella vera.

Poi, in un giorno infausto, ha incontrato il Covid-19, mentre si recava in Portogallo per un festival letterario. Il virus lo ha ucciso, fissando la memoria della sua esistenza nell’opera sconfinata che ha prodotto, tradotta e apprezzata in tutto il mondo.

A me i ribelli piacciono, da sempre, e Luis Sepulveda era uno dei nostri ribelli preferiti.
Gli rivolgo un pensiero grato e prometto di ricordarlo, mentre accarezzo i suoi libri migliori.

 

La primavera è qui. Ma è ancora lontana

arminio
Prendi un angolo del tuo paese
e fallo sacro,
vai a fargli visita prima di partire
e quando torni.
Stai molto di più all’aria aperta.
Ascolta un anziano, lascia che parli della sua vita.
Leggi poesie ad alta voce.
Esprimi ammirazione per qualcuno.
Esci all’alba ogni tanto.
Passa un po’ di tempo vicino a un animale,
prova a sentire il mondo
con gli occhi di una mosca,
con le zampe di un cane.

 

 

 

Franco Arminio mi piace perché ha un cognome straniero.
E perché il paese dei miei nonni non ha mai avuto più di 50 abitanti, e adesso non ne ha più nessuno, perché non c’è più nemmeno il paese.
Mi piace perché ho imparato a fare il pane prima della pandemia.
Perché respiro insieme a un gatto da quando sono nato e amo ascoltare quello che dice.
Mi piace Franco Arminio perché è vivo, presente, attuale.
Anche parlando poco. Quando scrive.
Ti dice assaggia.
Cammina.
Respira.

 

Asimmetrie

lui>Stamattina il canto di un usignolo mi ha fatto pensare a te
lei>…
lui>ti ho immaginata al mio fianco, ho chiuso gli occhi e mi sembrava che tu fossi qui
lei>asp
lui>la cosa che più mi fa soffrire di questa situazione è non vederti, non potermi perdere nell’azzurro infinito dei tuoi occhi
lei>cazz la caldaia perde
lui>ieri sera ho brindato con una lacrima, piangevo per la mancanza di te
lei>mi serve il numero dell’idraulico… non è che ce l’hai? Come si chiama, il signor Pennelli mi pare
lui>57723265641
lei>ma quello è il tuo numero
lui>chiamami, ho bisogno di sentire la tua voce
lei>un momento, devo controllare il pollo nel forno
lui>ogni momento passato ad aspettarti è un attimo d’infinito in cui mi perdo
lei>quasi cotto. Ok vado a preparare la tavola, ci aggiorniamo
lui>aspetta, resta ancora qui, un attimo di più
lei>starei, ma ho da fare. Ci becchiamo dopo
lui>non vedo l’ora, resterò qui ad aspettarti, con la finestra aperta, ascoltando il vento che mi parla di te
lei>ok, basta che non caschi di sotto, eh
lui>un bacio
lei>ciao core

La parola agli inesperti

asino_1-300x194Non sono esperto di niente.
Mi fido e non mi fido di quello che leggo e che sento.
Tendo a fidarmi dei medici e degli scienziati in genere, ma gradirei divulgassero più e meglio, per consentirci di avere idee nostre il più possibile ragionevoli.
Quando li vedo fronteggiarsi, però, sostenendo tesi in conflitto tra loro, mi rendo conto che è difficile che riescano a mettere in piedi una posizione oggettiva.
Figuriamoci per chi dovrebbe aderire, più o meno fideisticamente, a una posizione ufficiale. Esempi a piene mani: la questione delle mascherine su tutte.

Di evidente ci sono i morti, che mettono tutti d’accordo. Ma appena li seppellisci, e forse anche prima, ricomincia la tarantella.

Si accorcia, così, il confine tra i sostenitori della scienza e quelli che sposano tesi alternative. Non so dire se il problema dipenda dalla scienza che non divulga abbastanza o dall’internauta di Varazze che a partire da un par di paragrafi di Wikipedia pretende di sbugiardare un premio Nobel. Certo, dovendo scegliere di chi fidarmi, propenderei per il primo. Ma so anche che la dietrologia affascina troppe persone, specie quelle poco abituate ad attenersi a un impianto che abbia un minimo di logica.

Quando il tema, poi, è l’economia e la ricaduta di movimenti epocali, come per esempio la Brexit, o i confini spaventosi della crisi da Corona Virus, la divisione prende i connotati della lotta cieca tutti contro tutti. Spesso a partire da scenari basati su modelli che hanno il difetto di ridurre le persone a numeri. C’è un miliardo di individui, se basta, che ha visto da un giorno all’altro sconvolto il proprio quotidiano. Chi è in grado di quantificare l’impatto che questo periodo avrà sul nostro futuro?

Dal basso dell’ignoranza, perciò, ci si affida a visioni tifose. In base a quelle decidiamo, sbagliando quasi sempre. Nessuno possiede la verità, ma, soprattutto, nessuno sembra attendibile quando vaticina scenari futuri: tutto quello che sta accadendo in questo momento ci sorvola, inconsapevoli come siamo delle cause e degli effetti, a parte quelli, non secondari, che tocchiamo con mano quando perdiamo il lavoro o ci ammaliamo, noi o chi ci sta vicino.

Il virus, e prima ancora il terremoto, mettono a nudo i nostri difetti: la mancanza di conoscenza, l’incapacità di programmare, l’eccessiva dipendenza da modelli di sviluppo che hanno mostrato più volte che il pericolo più grande sta nella loro apparente irreversibilità.

Apparente, appunto.

Tutti a casa! Anzi, no, che c’è da fare il PIL

Mi manca lavorare a tempo pieno.

Ho aspettato troppo tempo per poterlo fare di nuovo, e adesso patisco questo standby da epidemia.

Però mi preoccupa lo strattone che stanno dando i padroni delle ferriere, che muovono giornali e televisioni per far pressione e ripartire a mezzo o pieno regime proprio dalle zone più incasinate col contagio, che poi sono le più produttive del Paese. Guarda caso, hai visto mai ci fosse un nesso.

I padroni spingono, l’economia è ferma, i clienti scappano, il fatturato è in picchiata, gli aiuti sono pochi, in debito, non si capisce ancora niente sulle coperture e sui tempi e modi d’intervento delle banche, le piccole attività sono già con un piede e mezzo nella fossa, eccetera. Tutto giusto.

Mi vengono però in mente le miniere e le acciaierie, due posti dove per lavorare s’è rischiata la salute di brutto, in passato e fino a ieri. E il fatto che in tante parti del mondo per mettere insieme il pranzo con la cena si subiscono ricatti e angherie.

Non saremo gli unici, insomma, a rischiare la buccia pur di lavorare, forse accadrà in modo controllato, il rischio non sarà elevatissimo, e tutto quanto. Ma rimane il fastidio per questa doppia morale, che fa predicare responsabilità e rigore fin quando non ci va di mezzo l’interesse di parte.

Il caso del calcio, per fare un esempio, è emblematico. Presidenti cattivoni non vogliono fermare il giocattolo e rischiano la salute dei loro dipendenti miliardari! L’accusa di media e sindacato. Quando poi si accingono a tagliare gli ingaggi, i demagoghi diventano loro.

Ciascuno difende la propria saccoccia a spada tratta, quindi, con la facile conclusione che gli anelli deboli del sistema, cioè i lavoratori precari, quelli poco garantiti, i piccoli commercianti, gli artigiani, tutti quelli a fatturato zero da un paio di mesi potranno sopravvivere a patto di pagarsi a rate il prezzo della salvezza, quando possibile. E se non si può, una prece.

La speranza di vita che passa anche per il potere contrattuale.
Non è una novità, ma tocca prenderne atto.

Chiedo allora che si calcoli un nuovo indice: un rapporto salute/PIL.
Ma lo dico con la voce del Poiana.
Ziocàn.