L’economia del prima e quella del dopo

Ho un grande rispetto per gli economisti, ma mi spaventa il loro ragionare per aggregati, che poi, se li guardi con la lente d’ingrandimento, sono persone.
Perciò mi atterrisce chi pontifica dall’alto di certezze che possono non valere per una persona singola, nel piccolo di qualche piega trascurata dal tratteggiamento dello scenario prossimo venturo, che non sempre si rivela corretto, non foss’altro che per il fatto che c’è sempre chi prevede una cosa e chi il contrario.

Per questo motivo fatico a farmi un’opinione su quello che è giusto e quello che è sbagliato, per esempio, a proposito della Brexit (sulla quale conosco persone certissime di sapere, non si sa su che basi). O, semplicemente, sulle politiche dell’Unione europea.

Per esempio, sulle conseguenze del lockdown per l’economia.
La più importante è il crollo dei consumi, che ci ha riportato a una piccola forma d’austerità che ricorda le abitudini di cinquant’anni fa: poche spese voluttuarie, zero capricci, vita casalinga morigeratissima, niente benzina, niente bar, niente ristorante, basta con lo shopping compulsivo di mutande e abbigliamento low cost, eccetera.

Chi se n’è stato a casa in smart working non ha perso soldi, chi è stato in cassa integrazione ne ha persi un bel po’, chi ha perso o non ha ritrovato il lavoro stagionale è messo peggio di tutti. Chi ha un negozietto/negozione si è trovato alle prese con i costi fissi che corrono e nessun cliente da soddisfare. Qualcuno s’è arrabattato con le vendite da asporto o per corrispondenza, altri sono rimasti, inerti e impotenti, a guardare il disastro prendere corpo.

Un bel pezzo d’economia ha continuato a lavorare, non proprio come se niente fosse ma quasi. Dalle analisi degli infettivologi si capisce che questo procedere senza sosta può aver creato i presupposti per il contagio, e in effetti la Lombardia sembra confermarlo.

Quello che non è chiaro è: che fine hanno fatto quei soldi che avrebbero dovuto capillarizzarsi, attraverso il pagamento dei salari e la spesa degli stessi, che normalmente s’incanala nell’economia. Tanto alla spesa alimentare, tanto al pagamento dei mutui, delle rate sulla macchina, della retta dell’asilo, delle ristrutturazioni domestiche, degli acquisti voluttuari, della spesa culturale, eccetera?

Lo Stato e gli enti pubblici hanno pagato gli stipendi per intero;
Le imprese che hanno mantenuto i dipendenti al lavoro pure;
Chi ha chiuso è ricorso alla cassa integrazione, e qui c’è un taglio deciso sopportato dai dipendenti, in attesa di conoscere il destino delle imprese;
Chi aveva delle rendite da affitti di immobili e/o di beni strumentali ha visto comunque inalterati i propri guadagni, anche se, probabilmente, avrà fatto fatica a riscuoterli.

Su tutte le categorie si sta abbattendo il ristoro previsto dai vari provvedimenti della decreteide, con alcune differenze fondamentali: chi era in difficoltà prima del lockdown, infatti, rischia di vedersi negate le risorse previste dai decreti.

Quindi, in estrema sintesi, abbiamo due entità generiche che stanno lasciandoci le penne:

  • i cittadini che hanno una retribuzione che non consente di coprire gli impegni mensili, vuoi perché l’hanno persa, vuoi per la misura esigua della cassa integrazione o della disoccupazione, vuoi per i ritardi nei pagamenti dei sussidi previsti; questa è gente che rischia di non mangiare, senza contare i problemi legati a bollette e affitti, non secondari se si pensa, ad esempio, dell’importanza vitale, in un frangente come questo, di disporre di una linea ADSL;
  • Le imprese e i piccoli imprenditori/commercianti la cui situazione sia stata, prima del lockdown, tale da far ritenere a rischio la continuità aziendale. Si tratta di entità economiche piccole o grandi che hanno smesso di guadagnare e che dipendevano disperatamente dalla poca liquidità messa insieme dall’operatività quotidiana, bloccata dal lockdown, che si vedranno negate, da una parte, le risorse necessarie a evitare il fallimento, e richieste, dall’altra, le tasse non pagate, presto anche quelle sospese, senza poter contare sul fatturato che consentiva loro un equilibrio precario.

Attenzione: si tratta di soggetti delle dimensioni più varie. Chiuderanno piccole e medie imprese in difficoltà, ma anche piccole entità che si reggevano in piedi con qualche trovata che ogni tanto gli consentiva di sbarcare il lunario. Le millemila attività che si mantengono organizzando eventi, commerciali e non, che muovono quel poco d’ossigeno necessario a respirare o a pagare chi li ha riforniti di merci, incurante del fatto che il loro magazzino è rimasto sigillato, e continua.

C’è un parallelo, insomma, tra l’azione del virus sugli umani e sull’economia: uccide chi è già debole. Fisicamente, contrattualmente, economicamente. Chi lo ha descritto come un virus comunista ha preso una cantonata (una più una meno…).

Quando si ripartirà molti cittadini avranno messo da parte i soldi che non sono riusciti a spendere: tornerà per un momento l’economia frugale delle generazioni passate, quelle che mettevano da parte i soldi che rappresentano, oggi, il famoso (spero non sopravvalutato) gruzzolo degli italiani.

Torneranno a uscire da casa, desiderosi di recuperare il tempo perduto, e compreranno merci e prenoteranno viaggi, vacanze, e acquisteranno macchine e cose, eccetera.
Questo sarà il “rimbalzo” in cui molti sperano.

Bisogna vedere, però, dove si potranno spendere questi soldi: quanti e quali esercizi saranno in grado di reggere l’impatto della crisi e di sopportare le misure imposte per le riaperture. Le dimensioni dei luoghi di vendita e di esercizio delle varie attività commerciali faranno la differenza, ma ci si troverà con grandi spazi frequentabili da pochi soggetti, i cui costi d’esercizio tenderanno per forza a lievitare, e piccoli spazi incompatibili con le regole, che saranno costretti a chiudere.

In più a fare la differenza saranno i comportamenti originati dal lockdown: una maggiore dimestichezza con l’acquisto on line, oltre che con il lavoro agile e il webinar di natura anche commerciale, altereranno ulteriormente le caratteristiche degli scambi.

Non credo sia necessario essere sociologi o economisti per immaginarsi le conseguenze pesanti sulla gente, come è ben chiaro, e la memoria della guerra ce lo rammenta, che ci sarà chi sulla crisi da Covid ingrasserà di brutto, perché quello che è in circolo, come valore, non si è ancora distrutto, ma soltanto polarizzato.

Ci sono, questo sì, crediti marciti a go-go: c’erano anche prima, ma la situazione li avrà fatti crescere. La decreteide ne trasferirà il peso, in parte, sulle spalle dello Stato, che è come dire, beninteso, che li pagheranno i cittadini, da lì in poi, almeno chi avrà la forza di pagare le tasse.

I debiti di chi chiuderà, pignorato il pignorabile, si dissolveranno in un mare di lacrime.

E saranno quelli, in fondo, a dare la vera misura del disastro.

Rispetto

Ho letto ovunque lamentele e critiche contro il Governo per quello che sta decidendo da due mesi in qua. Legittime, vivaddio.
Resta il fatto che questo Governo ha legiferato su un’emergenza senza precedenti che ha prodotto 30mila morti, un numero imprecisato di ammalati contagiosi e una serie di guasti che hanno costretto a un blocco totale dell’economia di uno dei più grandi Paesi del mondo, la seconda manifattura della UE.
Ha agito, questo Governo, al buio, senza potersi rifare a un precedente spendibile, se non a quello opaco della Cina.
Ha agito prendendo calci dall’opposizione (l’ultimo l’astensione di ieri sul Recovery Fund, dai soliti antitaliani) e dovendo rintuzzare fronti interni che tirano la volata ad altri o fanno discorsi di convenienza politica. Consenso, visibilità, posizionamento tattico in vista del dopo.
Ha agito impegnando la struttura della pubblica amministrazione a più livelli: spostandola in smart working e caricandola di una quantità spaventosa di lavoro da fare man mano che grandinavano i Dpcm e le norme attuative e tutti gli adattamenti regionali e locali.
Ha dovuto decidere sugli spostamenti, sulla vita privata, sull’istruzione, sui rapporti affettivi, sul diritto alla salute, al lavoro, alla retribuzione, alla libera iniziativa imprenditoriale, alla libertà di culto, alla fruizione e alla produzione culturale, all’attività ludica, sportiva, dilettantistica e non.
Ha dovuto impegnare tutte le forze disponibili per vigilare sugli spostamenti e sui comportamenti privati.
Ha fatto tutto questo nel flusso contraddittorio delle informazioni scientifiche e dei dati statistici, ancora oggi frammentari e poco attendibili, se non per il numero costante dei morti.
Alcune categorie di cittadini sono state confinate a casa, altre sono finite in trincea.
Medici e sanitari su tutti, ma anche chi ha lavorato nella GDO e nella vendita di alimentari, e poi gli impiegati pubblici applicati direttamente alle questioni più importanti. Immagino il delirio capitato addosso ai dipendenti dell’INPS. E poi i corrieri, i postini, e chissà quanti altri.
La gente è morta lavorando senza fiatare.
La critica è sacrosanta, ma la lamentela è ingenerosa.
I provvedimenti messi in piedi spostano miliardi e interessano 60 milioni di persone. Nessuno poteva farne di più articolati, precisi e perfetti in così poco tempo e con così poche risorse a disposizione, senza nessuna collaborazione o quasi, contando su un apparato impegnato allo stremo giorno per giorno ed esposto come tutto il resto alla paura del contagio per sé e per i propri cari.
Di questo lavoro va dato atto, e i risultati ottenuti sono di tutto rispetto. Detto questo, c’è chi è morto, chi fallirà, chi perderà il lavoro, chi dovrà tirare la cinghia o impazzire perché non sa a chi dare i resti al lavoro. Vero.
Ma è successo qualcosa che non era mai successo prima, nell’era modernissima che viviamo.
E non si poteva fare finta di niente e fare 300.000 morti anziché 30.000 per evitare a tizio o a caio di lavorare di più o di impazzire dietro ai problemi causati da questa emergenza.
Qualcuno doveva decidere e lo ha fatto.
Merita rispetto.

La cultura dei localini

Ho visto spettacoli meravigliosi in teatrini da venti posti o poco più, e neanche pieni.
Ho visto film indimenticabili in cinemini piccolissimi.
Ho mangiato e bevuto divinamente in localini dove si stava stretti stretti, dai 4 coperti in su. Ho frequentato librerie e negozi di dischi che non ci si entrava per quanta roba c’era, stipata in spazi minimi.
La cultura si consuma in spazi che la contengono, spesso fatti su misura e inventati in contesti destinati ad altro, per contenere i costi al minimo e riuscire a dare spazio a proposte di qualità, magari di nicchia, come si usa dire.
Non perché si debba essere contrari per forza alla massa urlante che affolla le piattaforme dei balli di gruppo, alle adunate oceaniche che ingrassano i bagarini o alla ristorazione su scala esagerata, intendiamoci. E’ che la bellezza spesso si libera in ambienti angusti, riservati, alla portata dei pochi che amano ascoltare, assaggiare, dare una dimensione diversa all’esperienza.
Tutto questo mondo rischia di essere spazzato via dall’emergenza sanitaria in atto.
No teatro, no cinema, no concerti, su qualunque dimensione. No alla ristorazione, di qualunque qualità. Il paradosso è che qualche gestore perennemente squattrinato potrà finalmente accedere all’elemosina di un sussidio, che è sempre più ricco del nessuno stipendio che si porta a casa lavorando in certi settori.
Ma mi chiedo: quando l’emergenza sarà finita, se finirà, cosa rimarrà?
Chi soddisferà il nostro desiderio di arte, di cultura, di gioia dei sensi?
Mi aspetto novità dall’inventiva di chi opera nel settore facendo i salti mortali da sempre. L’emozione non si può confinare su Youtube.
Stanno già nascendo nuove forme, da qualche parte, di sicuro.