Leggo I was born in Lazio dell’amico Stefano Ciavatta e mi vengono in mente troppe considerazioni da fare, tante che ci scriverò sopra, se la lucidità mi assiste, alcuni post nei prossimi giorni.
La prima è sulla pretesa unicità del tifoso laziale in quanto detentore di un suo preciso e personale modo d’intendere l’amore per la squadra di calcio. Vengono in mente due eccezioni da sollevare: la prima riguarda l’essere tifoso tout-court: chiunque sia affetto dalla malattia del tifo ha un rapporto unico e intimo con la propria squadra, legato all’infanzia e alle modalità con cui ha aderito alla propria tribù tifosa.
I ricordi di stadio, i fotogrammi condivisi con i familiari che allo stadio ci hanno iniziato, i rumori e i colori della partita, le grida, le imprecazioni, l’esultanza, il sostegno, le litigate del lunedì a scuola e tutto il resto fanno parte della memoria di qualunque tifoso. Per quanto si stia da anni sotto il tiro incrociato delle televisioni non c’è modo di scardinare le basi della passione calcistica.
Il modello del tifoso sospeso tra il monomaniaco beota e il bimbominkia che ripete a pappagallo i mantra posticci inventati dal linguaggio fasullo dei telecronisti resta circoscritto a una platea limitata, anche se, per forza di cose, in crescita.
Una crescita che misura, probabilmente, l’allontanamento dallo stadio come luogo in cui si rappresenta l’unica realtà calcistica che conta, con la quale i tifosi si devono per forza confrontare, quella che fornisce ai litiganti in tribuna l’unico metro di paragone attendibile, quello del risultato in campo e della classifica che ne scaturisce, settimana dopo settimana.
La televisione ha costruito negli ultimi tre-quattro lustri il mito di un calcio patinato che è star system, produce quattrini a palate e prescinde, nel suo racconto di un mondo dorato fatto di supereroi, dal risultato, vissuto come un incidente che spesso conferma e talvolta smentisce la favola televisiva.
A questa versione moderna del calcio, abbozzata negli anni ’90 e realizzata nel terzo millennio, resistono alcuni romantici che si ostinano ad affermare che esiste vita oltre lo show e che loro stessi ne sono la prova. Non sono solo laziali. In tutte le squadre c’è una tifoseria divisa tra vecchie e nuove modalità di sostegno, che lotta per non omologarsi alle parole d’ordine della televisione o della tifoseria organizzata, elemento con pretese d’egemonia che sullo stadio preme da ben prima, per mire che spesso hanno poco a che fare con la cosiddetta passione bambina.
Il laziale ha dovuto resistere a spinte fortissime dovute all’appeal della Roma, nella quale militava Totti, uno dei pochi personaggi su cui puntare per il salotto televisivo. Spinte che tendevano a relegare i biancocelesti in un ruolo di secondo piano, rientrati nei ranghi dopo gli exploit della superLazio cragnottiana.
Ha reagito attaccandosi ai ricordi più nitidi e a una storia che è facilmente documentabile e che sancisce il diritto all’esistenza della Lazio e ne certifica a Roma la primogenitura calcistica. I laziali affermano unanimi la propria diversità che consiste nel non riconoscere parole d’ordine, e perciò rivendicano il loro diritto a una conformità non conforme.
In realtà chi segue da vicino i destini della squadra biancoceleste sa che surfando tra stadio, comunicazione verticale e social network si possono facilmente riconoscere alcune profonde divisioni in blocchi di “pensiero”. La più vistosa è quella tra lotitiani e antilotitani, i cui toni restano accesi, nonostante l’abbandono di posizioni oltranziste anti-società da parte degli ultras. L’altra divisione importante, ancorché secondaria rispetto al nodo lotitiano, riguarda le manifestazioni razziste e politicizzate di parte dello stadio. Molti laziali, anche di destra, sono a disagio e non lo nascondono, preoccupati dell’immagine negativa e delle ricadute economiche e sportive del problema.
Gli ultras laziali hanno sempre una grande influenza sul tifoso medio, che non ha abbandonato la visione romantica della curva nord che da ragazzino gli ha fatto riempire diari e lavagne scolastiche di fregi, scritte e attestazioni di stima qualche volta ripetute a pappagallo oltre le proprie convinzioni personali. So di che parlo perché l’ho fatto anch’io, e scrivendo cose di cui oggi mi vergognerei.
L’unicità del tifoso laziale è vera (ovvio) se si considera l’individuo in quanto tale, meno se lo si considera come tifoso perché tende ad assomigliare ad altri e a concentrarsi in gruppi almeno in parte omologati in senso ideologico. Difficile che Lotito possa risultare simpatico a pelle, ma negarne i buoni risultati sembra pretestuoso, ed è strano che un tifoso che rievoca a ogni piè sospinto con nostalgia il tempo in cui si salvava per un soffio di vento dalla retrocessione in serie C rimproveri oggi al suo massimo dirigente la mancanza d’ambizione.
Sono stranezze tipiche dei tifosi che eleggono a beniamini quelli che meglio li rappresentano (“uno di noi”), talvolta a prescindere dal rendimento in campo, promuovendo valori come la grinta e lo spirito battagliero e facendoli coincidere col proprio ideale di attaccamento alla maglia. Spesso la storia ci ha detto, però, come il carattere sanguigno e l’ascendente sui compagni e sui tifosi non fosse indice di professionalità.
La Lazio è stata spesso tradita dai suoi calciatori, gli stessi che i tifosi hanno innalzato su altari dai quali sono poi precipitati con ignominia. Su questo poggiano le basi della resilienza laziale, che si è fatta più solida con le sciagure degli ultimi 40 anni, soprattutto con la morte di Re Cecconi e di Maestrelli.
Il racconto che vuole i laziali sofferenti/soccombenti di fronte a un vicino di casa prepotente è in massima parte frutto di sindrome d’accerchiamento e viene smentito dai fatti: la preponderanza dei romanisti è solo numerica, mentre sul campo si è creata la curiosa dicotomia che vede la Roma sempre piazzata nella competizione principale e la Lazio spesso vincente in quelle secondarie, che però fanno albo d’oro e gioia dei tifosi.
Di contro va smentita l’idea autoreferenziale dei laziali, la cui nobiltà va riaffermata nel quotidiano e non si può mutuare dalle magnifiche gesta dei pedatori antiqui che riempiono le pagine entusiaste dei benemeriti collezionisti di cimeli e disvelatori di memorie di Laziowiki.
Deve essere chiaro che il calcio vive nella quotidianità e che le pagine in bianco e nero non incidono sul risultato, anche se creano senso d’appartenenza e conoscenza delle proprie radici. Sappiamo già che questo non impedisce comportamenti sbagliati da parte della tifoseria, ben poco in linea col dettato dei fondatori, né mitiga le mire ambiziose dei calciatori, come racconta la recente vicenda di Keita, approdato al Monaco, società meno ricca di storia ma più disposta ad assecondarne le mire e l’appetito.
Così ristabiliamo la verità che ci raccontano i fatti: la Lazio è una società antica che sta vivendo da 25 anni a questa parte il suo periodo migliore, a parte l’abbagliante lampo dello scudetto ottenuto nel ’74.
La sua presenza nel calcio italiano è costante, anche nei piani nobili fino al ’60, pur senza vincere quasi niente. Juventus, Inter e Milan sono un’altra cosa, Genoa, Torino e Bologna hanno un’altra storia da raccontare.
Le storie di famiglia, invece, se le raccontano tutti i tifosi, da Nick Hornby in giù, e rappresentano, tutte, l’unicità della visione del tifoso e delle sue emozioni. Che non hanno molto a che fare col modo d’intendere il calcio, in assoluto o nella versione che ci raccontano oggi le ribalte continentali e gli urli dei Caressa e dei Repice.
Il punto, in fondo, è questo: quello che accade sul campo è il fiume della realtà che scorre, quella che ci batte in petto è un’illusione che qualche volta si trasforma in realtà. E non c’è niente di più consolatorio del sogno di riscatto di un tifoso. Di tutti i tifosi.