Ancora con le analisi e le prognosi

Non c’è niente da pensare, c’è da agire.
Milioni di disoccupati.
Un Paese di gente che non studia e, comunque, poi non trova lavoro.
Gente che emigra per campare, illudendosi di andare a stare meglio.
Città che cascano a pezzi, infrastrutture che ci crollano sulla testa, catastrofi da dissesto idrogeologico o da terremoto. Ambiente minacciato da incuria e inquinamento.
Criminalità organizzata che si è fatta industria.
Enormi differenze tra i pochi privilegiati e i milioni che faticano a sbarcare il lunario o non ci riescono proprio.
Blocco della mobilità sociale.
Nessuna opportunità per una grossa fetta di popolazione.
Regresso del Paese su ogni tavolo di discussione planetario.
Crollo della natalità, società di vecchi.
Distruzione sistematica della cultura.
Devo continuare?
In un Paese ridotto così c’è da pensare alle ricette da mettere in campo per contendere il potere agli incapaci che ce l’hanno in mano ora? Serve una forza che metta la bontà al centro della discussione? Solidarietà, empatia, apertura alle istanze positive, chiacchiere, dibattito, ammiccamenti, sorrisi, canzoni che a cantarle non si diventa eroi, e parole, parole, parole.
Agire vuol dire scendere per strada e lottare, mostrando a chi ne ha bisogno che sei al suo fianco. Scendere da quelle poltrone e prendersi un bel po’ di vento in faccia, fare il pieno di fischi, ma ascoltare i racconti della gente e prendersi cura delle emergenze di un Paese che sta su una brutta china.
Più di tutto, la gente ha bisogno di essere rassicurata. C’è chi le soffia nelle orecchie la paura, tutto il tempo.
Fate, oppure tacete e toglietevi dalle palle.
Lasciateci in pace a difenderci da Salvini & Co.
Non vi ci mettete pure voi.

Qui ad Atene noi facciamo così

Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.

Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri,chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.

Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.

Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.

Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.

Qui ad Atene noi facciamo così.

(Discorso di Pericle agli ateniesi, 431 Avanti Cristo)

Siamo tecnologici più di quanto non pensiamo

Riflettevo l’altro giorno su quanta tecnologia mi è capitato di digerire nei primi  anni di carriera lavorativa:

  • nel 1987 lavoravo con un elaboratore NCR con doppio floppy e facevo le paghe inserendo direttamente comandi in cobol. Ho usato per la prima volta il telefax
  • nel 1988 ho avuto il mio primo 286, ho imparato a usare il foglio elettronico (Lotus 123) e il primo wordprocessor (wordstar) e ho programmato in Basic l’esecuzione di uno stacco musicale (Rebel waltz dei Clash)
  • nel 1989 sono passato al 386 e ho programmato le macro su Lotus 123 per eseguire delle routine rompipalle in ufficio (calcolo indennità malattia, riempimento tabulati CIG), ho usato per la prima volta una stampante laser, Windows e IBM S/36
  • nel 1990 ho visto all’opera i primi telefonini, pesavano chili
  • nel 1992 mi sono sdraiato dentro un IBM As/400 e ho conosciuto il Macintosh, SE, Classic, LC e ho cominciato a gestire una rete aziendale, ho cominciato a usare Excel, Word, FileMaker  e più avanti Access
  • nel 1995, più o meno, ho usato per la prima volta la posta elettronica e ho imparato a usare il Pascal
  • non ricordo il mio primo telefonino, quando l’ho comprato, intendo. Era un Motorola, non ricordo che modello
  • nel 1997/98, non ricordo bene, ho acquistato il kit di Agora, ho iniziato a usare internet e ho imparato a usare l’HTML creando un ipertesto su Amatrice
  • nel 2000 ho gestito il mio primo sito internet
  • nel 2002 ho aperto il mio primo blog

Nel giro di 15 anni fanno diversi sistemi operativi, una potenza di elaboratore moltiplicata esponenzialmente diverse volte, alcuni linguaggi semplici di programmazione, diversi programmi per ufficio imparati in modo approfondito, più la capacità di gestire contenuti sul web, dargli una sistemata grafica, registrare un dominio, usare un CMS, un software per progettare siti, più di un’interfaccia per blog.

Alla faccia della resistenza al cambiamento.

La politica

La politica può commettere errori, perché è umana. Ma la politica è cruciale, perché sostiene le nostre basi democratiche. Senza politica, concederemmo l’istruzione, il welfare, la sanità e i nostri diritti ai gruppi più forti e spietati di un Paese. E qui arriviamo al punto: la politica, quella libertaria, deve capire che può sopravvivere solo se torna a dare un messaggio di fiducia, di uguaglianza e soprattutto se torna a vivere come vive la maggioranza della popolazione. Quando la politica assume valori e forme dei settori più potenti o aristocratici della società, muore. E ipoteca la democrazia.

José “Pepe” Mujica
intervista rilasciata ad Antonello Guerrera – La Repubblica – 26/8/2018

Amatrice e la voglia di tornare alla normalità. Che non è quella del terremoto

Due anni fa, alle 3 e 36 del 24 agosto, una scossa interminabile di terremoto, di Magnitudo 6, con epicentro nei pressi di Accumoli, devastò il territorio dei comuni di Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto, causando danni per miliardi di euro e 299 morti.
Le immagini del sisma fecero il giro del mondo: Vigili del Fuoco, Forze dell’Ordine, Militari, volontari arrivati da tutta Italia scavarono con le mani nude e con mezzi di fortuna per estrarre dalle macerie i superstiti, feriti e sotto choc, e i corpi straziati delle vittime del sisma.
Un’onda di solidarietà si propagò, come prima si era diffusa la scossa: ospedali, caserme, palestre, alberghi, soccorsi mobilitati, gente che interrompeva le vacanze per aiutare, alla faccia delle bugie sulla morte dell’empatia e sull’irrimediabile crollo dei valori degli italiani.
Solidarietà espressa anche dalle autorità dello Stato, che però non sono riuscite ad attivare un percorso di ricostruzione efficiente. Anche perché le successive scosse distruttive hanno azzerato la gran parte del lavoro che era stato fatto in un primo tempo: il Terremoto del Centro Italia ha coinvolto un territorio (il cosiddetto cratere) assai più vasto di quello colpito dalla prima scossa.
Il colpo micidiale del 30 ottobre, epicentro a Norcia, magnitudo 6,5, con fiumi che escono dal proprio letto e si mangiano le strade, paesi-gioiello come Visso resi completamente inagibili, i segni della terra che si apre sul profilo austero del monte Vettore, lo sciame che si ripropone incessante, con decine di migliaia di repliche che frustrano la speranza della gente, costretta a trovare riparo lontano da casa in un inverno rigido, col freddo e la neve a colpire, insieme alla terza mandata di scosse violentissime, a gennaio, spostate stavolta verso l’Abruzzo.
Un disastro che accomuna un pezzo della spina dorsale d’Italia, abituata a convivere da secoli col terremoto, ma impreparata a far fronte a tanta violenza distruttrice.
Amatrice, ancora oggi, rappresenta l’immagine di copertina del cataclisma. Un paesaggio irreale, con la Torre civica e una vecchia torre campanaria, un tozzo di muro rimasto in piedi della chiesa di Sant’Agostino, e due palizzate che segnano i limiti laterali di quello che resta di Corso Umberto. Di là c’è il nulla: le macerie che restano, sminuzzate e ammucchiate, dopo due anni di lavoro di chi cerca affannosamente di creare i presupposti della ricostruzione.
Le decine e decine di frazioni di Amatrice sono rimaste com’erano, o quasi: molte sono completamente distrutte, come i piccoli centri del comune di Accumoli, il cui territorio si è abbassato di 20 centimetri per effetto della prima scossa. I danni maggiori sulla quota della Via Salaria, la Statale costruita sull’antica via romana che collegava la Caput Mundi all’Adriatico.
Il lavoro da fare per ricostruire è ancora agli inizi. Con fatica si costruisce l’ambito normativo in cui dovranno operare imprese e professionisti, penalizzati dalla burocrazia, dalle stagioni fredde che rallentano il lavoro di sistemazione delle macerie e dall’illusione che bastino le SAE, le casine prefabbricate che sono state assegnate agli sfollati.
Tacendo delle lungaggini che hanno costretto gli sfollati a due anni di sradicamento in alberghi sfitti nelle vicine località balneari, non possiamo non intenerirci di fronte ai sorrisi con cui la gente ha accolto la possibilità di avere di nuovo una casa propria, anche se somiglia, troppo, a una baracca.
Si tocca con mano il desiderio di normalità della gente: le piante, i fiori, le pulizie che fervono, gli orticelli. Ho visto due girasoli prepotenti guardare il cielo con speranza, nelle casette di Poggio Castellano, quasi periferia amatriciana, che saranno messe a dura prova dalla neve e dalle temperature che d’inverno scendono sotto lo zero di dieci gradi e più.
La zona commerciale creata ad Amatrice restituisce agli abitanti la possibilità di lavorare, anche se è evidente che si tratta di una sistemazione provvisoria: i negozi sembrano arredati pensando a un tempo d’apertura limitato, somigliano a postazioni improvvisate di ambulanti che domani apriranno chissà dove.
Restano i militari a presidiare gli accessi di quella che era la zona rossa. Stanno lì a rappresentare un Paese in difficoltà, che non sa gestire emergenze troppo grandi per quest’epoca di confusione e di scarsa capacità di convergere davvero sul bene comune.
In questa situazione risalta l’opera di qualche irriducibile che, incurante delle difficoltà enormi, ha fin dall’inizio intrapreso un percorso di rinascita. Il caso della frazione amatriciana di Capricchia, dove alcuni residenti, aiutati dai tanti villeggianti estivi, hanno costruito una casa comune che ha raccolto gente da molti paesi, rimasta sola e desiderosa di rimanere sul posto, piantando un seme di ricostruzione.
La riprova che nel disastro emergono le qualità migliori della gente, disposta a sacrificarsi per aiutare gli altri, ciascuno col suo dramma che racconta orrendi lutti e disastri materiali. C’è chi ha perso tutto e chi è sopravvissuto ai propri cari, chi si è chiuso in un silenzio che è lutto e rifiuto dell’orrore, chi grida la propria rabbia, chi si aggrappa a quello che resta e chi scappa.
Gente che si è aiutata da sola, mentre le polemiche sulla ricostruzione che tarda a mettersi in moto negano l’opera meritoria di chi si è impegnato per aiutare, utilizzando risorse messe a disposizione dalla solidarietà di molti. Si legge in giro di piccole guerre tra poveri, di gente che si accusa di eccessi e di furbizie, quando è chiaro a chi ha occhi per vedere che tutti hanno il diritto di imprecare contro la sorte maligna.
Chi ha perso il tetto che aveva sulla testa, chi il luogo di lavoro, chi la casa degli affetti di famiglia, dove tornare a passare le ferie: anche se è chiaro che ci sono differenti livelli di danno subito, è del tutto logico immaginare un danno del cuore che accomuna tutti. Come tutti accomuna il terrore: chi ha vissuto i momenti terribili della scossa ne porta i segni.
L’ansia, l’insonnia, il dispiacere, l’impossibilità di raccontare l’accaduto per mancanza di parole che davvero rendano l’idea dell’incredibile. In fondo a tutto, l’incapacità di spiegare, per tecnici e per profani, le spaventose ferite lasciate da un evento che sulla Terra si ripete con cadenza quotidiana, senza che ne derivino dolori e danni paragonabili a quelli rilevati qui, o nella vicina L’Aquila, o in troppe altre circostanze disastrose del passato.
Qualcosa che riconduciamo alla tecnologia delle costruzioni, alle carenze dei materiali, agli errori umani, e che forse deriva anche dalla mancanza di conoscenza profonda del funzionamento dei terremoti e dei danni che possono provocare alle cose, e quindi alle persone.
A margine, gli imbonitori e i ciarlatani che raccontano di poter prevedere le scosse con questa o quella misurazione miracolosa, in una terra dove il magico è tradizione, se è vero che la frattura della faglia del Vettore si chiama Via delle Fate e racconta della fuga delle fate dal piede caprino dalle feste danzanti di Foce, paese adagiato sui fianchi della montagna, che oggi, come gli altri, non esiste più. Le fate scappavano per anticipare il sorgere del sole e salivano sui fianchi della Sibilla, luogo dove si sono perpetuati dal medioevo in poi riti pagani ormai vietati dall’ortodossia religiosa, e poi ancora riti di negromanti e liturgie sataniche.
Qualunque cosa, insomma, pur di spiegarsi perché, a un certo punto della notte, si sia scatenato un simile inferno. Che oggi si cerca di dimenticare, tornando alle abitudini di prima, feste agostane incluse, anche se non si sa dove andare a dormire, dove mettersi a danzare, dove appoggiarsi per cucinare uno spaghetto all’amatriciana.
Il desiderio di normalità è infinito. La speranza di tutti è che sia questa l’occasione in cui portare all’indietro l’orologio della storia, a prima dello spopolamento della campagne, al tempo felice in cui in queste zone si viveva e si lavorava nella speranza di un domani migliore.
Una speranza che il terremoto sembra aver cancellato, ma che era sul punto di morire già prima: non ce lo dimentichiamo.

Ahò, che fichi

(post di dieci anni fa, 4 luglio 2008)

Allora, annassimo alla sala corse quella der casino all’Avignonesi, mpò più in là der Messaggero.

C’era st’amico ch’aveva risparambiato dù scudi e je dicevamo: giochete sto cavallo bono, che er cognato der fattorino dell’atacche quello chii capelli che pare na sorca intinta all’ojo, caa sgrima e co tutta a forfora sur giacchetto, che bazzicava er genero der monnezzaro, aveva inteso che sto cavallo dice che era bono, sicuro.

Ahò, che te credi che ciannavamo tutti i giorni a giocà a li cavalli?
Ma che cazzo stai a dì, ma si nun c’avevamo na lira pe piagne, che ‘a pora mamma passava e giornate sane a riccoje la cicoria ar pratone!
Solo che ar pratone ce stava pure la banda de spugnetta, che sì te beccaveno da solo erano cazzi. Minimo minimo te corevano appresso e te toccava fa a botte, si ciavevi  li sordi, poi, peggio che annà de notte.

Eppoi che sordi ce potevamo avé? Già era tanto che magnavamo pasta e patate… Comunque si nun te facevi cioccà te potevi annà a riccoje la frutta ner giardino dee monache. Mortacci loro a robba che ciavevano! E bricocole! E cerase, ma quelle toste, no e visciole, li graffioni! Ammazza quant’ereno boni! E persiche? Squisite!

Na vorta ciavevo na fame che ncevedevo e me so magnato le cocce dee fave. Ppputo che SCHIFO! Ar sor Amilcare, invece, je piaceveno, see magnava co tutte e cocce. Pure i cachì che allappavano se magnava. A me me facevano venì na sete che pareva che m’ero magnato le sarache.

Ansomma, annassimo all’Avignonesi. Semo arivati aa stazzione termini cor C1, se semo comprati le fusaje da Giggetto prima de partì a piazza dii mirti, poi quer cojone de Arvaro ha voluto pià er tranvetto e allora se semo separati.

Comunque er cartoccetto de fusaje io moo sò magnato tutto, ancora n’eravamo arivati aa maranella e già l’avevo finite tutte. Er ciccione invece se magnava li bruscolini, ammazzelo che schifo! Aveva smonnezzato tutto er tranve, er fattorino je fa: a maschio, l’animella tua, ma che a casa tua fai ste porcherie? E che sarebbe? Hai zozzato tutto, ammappete, io ‘o farebbe aripulì a tù madre.

Allora l’avemo preso per culo daa stazzione fino ae lazziali, poi quanno che è arivato Arvaro cor tranvetto j’avemo fatto la stira, a sto frocione, così s’empara a fa le cose pe li cazzi sua senza fa a mezzi coll’amichi, sto cicero. Dopo semo iti a fasse na passeggiata a via nazzionale, avemo cioccato un po’ de stragnere ce n’ereno de tutti i colori bionne more rosce ricce lisce buzzicone scrocchiazzeppi zinnone o che c’era passato San Giuseppe caa pialla.

Adavede che robba! A n’americana j’ho detto: dammenbacio, lelletta. Quella me s’è messa a ride, allora Arvaro che è ‘nvidioso me s’è messo de mezzo, sto scrauso, che me piava per culo che ero diventato rosso. M’è annato er sangue all’occhi, mannaggia er tumefatto, j’ho dato un destro. Ahò, secco, li mortacci mia. E’ cascato come na pera. Ciaveva er sangue e la bava e pure l’occhi abbottati. Io me so messo paura, poi quando ho visto che aveva rifatto j’ho detto: a stronzo, si ciariprovi t’apro er culo.

Poi è ita a fenì che er cavallo n’è arivato, ‘a dritta era ‘na sola…