Le ragazze, quelle che camminano,
Con stivali di occhi neri,
Sui fiori del mio cuore.
(Velimir Chlebnikov)
Le ragazze, quelle che camminano,
Con stivali di occhi neri,
Sui fiori del mio cuore.
(Velimir Chlebnikov)
Non c’è niente da pensare, c’è da agire.
Milioni di disoccupati.
Un Paese di gente che non studia e, comunque, poi non trova lavoro.
Gente che emigra per campare, illudendosi di andare a stare meglio.
Città che cascano a pezzi, infrastrutture che ci crollano sulla testa, catastrofi da dissesto idrogeologico o da terremoto. Ambiente minacciato da incuria e inquinamento.
Criminalità organizzata che si è fatta industria.
Enormi differenze tra i pochi privilegiati e i milioni che faticano a sbarcare il lunario o non ci riescono proprio.
Blocco della mobilità sociale.
Nessuna opportunità per una grossa fetta di popolazione.
Regresso del Paese su ogni tavolo di discussione planetario.
Crollo della natalità, società di vecchi.
Distruzione sistematica della cultura.
Devo continuare?
In un Paese ridotto così c’è da pensare alle ricette da mettere in campo per contendere il potere agli incapaci che ce l’hanno in mano ora? Serve una forza che metta la bontà al centro della discussione? Solidarietà, empatia, apertura alle istanze positive, chiacchiere, dibattito, ammiccamenti, sorrisi, canzoni che a cantarle non si diventa eroi, e parole, parole, parole.
Agire vuol dire scendere per strada e lottare, mostrando a chi ne ha bisogno che sei al suo fianco. Scendere da quelle poltrone e prendersi un bel po’ di vento in faccia, fare il pieno di fischi, ma ascoltare i racconti della gente e prendersi cura delle emergenze di un Paese che sta su una brutta china.
Più di tutto, la gente ha bisogno di essere rassicurata. C’è chi le soffia nelle orecchie la paura, tutto il tempo.
Fate, oppure tacete e toglietevi dalle palle.
Lasciateci in pace a difenderci da Salvini & Co.
Non vi ci mettete pure voi.
Ogni tanto riciccia Walter.
Come il motorino diabolico della Pantera Rosa, che qualunque cosa accada riparte e combina guai. Vedi cartone.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri,chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
(Discorso di Pericle agli ateniesi, 431 Avanti Cristo)
Riflettevo l’altro giorno su quanta tecnologia mi è capitato di digerire nei primi anni di carriera lavorativa:
Nel giro di 15 anni fanno diversi sistemi operativi, una potenza di elaboratore moltiplicata esponenzialmente diverse volte, alcuni linguaggi semplici di programmazione, diversi programmi per ufficio imparati in modo approfondito, più la capacità di gestire contenuti sul web, dargli una sistemata grafica, registrare un dominio, usare un CMS, un software per progettare siti, più di un’interfaccia per blog.
Alla faccia della resistenza al cambiamento.
La politica può commettere errori, perché è umana. Ma la politica è cruciale, perché sostiene le nostre basi democratiche. Senza politica, concederemmo l’istruzione, il welfare, la sanità e i nostri diritti ai gruppi più forti e spietati di un Paese. E qui arriviamo al punto: la politica, quella libertaria, deve capire che può sopravvivere solo se torna a dare un messaggio di fiducia, di uguaglianza e soprattutto se torna a vivere come vive la maggioranza della popolazione. Quando la politica assume valori e forme dei settori più potenti o aristocratici della società, muore. E ipoteca la democrazia.
José “Pepe” Mujica
intervista rilasciata ad Antonello Guerrera – La Repubblica – 26/8/2018
Tremo e tento di modulare
il soffio delle canne,
m’imbevo del mio canto
che giungere non sa là dove manca.
Suadente, seducente,
non rimane niente.
(Andrea Peracchi)
(post di dieci anni fa, 4 luglio 2008)
Allora, annassimo alla sala corse quella der casino all’Avignonesi, mpò più in là der Messaggero.
C’era st’amico ch’aveva risparambiato dù scudi e je dicevamo: giochete sto cavallo bono, che er cognato der fattorino dell’atacche quello chii capelli che pare na sorca intinta all’ojo, caa sgrima e co tutta a forfora sur giacchetto, che bazzicava er genero der monnezzaro, aveva inteso che sto cavallo dice che era bono, sicuro.
Ahò, che te credi che ciannavamo tutti i giorni a giocà a li cavalli?
Ma che cazzo stai a dì, ma si nun c’avevamo na lira pe piagne, che ‘a pora mamma passava e giornate sane a riccoje la cicoria ar pratone!
Solo che ar pratone ce stava pure la banda de spugnetta, che sì te beccaveno da solo erano cazzi. Minimo minimo te corevano appresso e te toccava fa a botte, si ciavevi li sordi, poi, peggio che annà de notte.
Eppoi che sordi ce potevamo avé? Già era tanto che magnavamo pasta e patate… Comunque si nun te facevi cioccà te potevi annà a riccoje la frutta ner giardino dee monache. Mortacci loro a robba che ciavevano! E bricocole! E cerase, ma quelle toste, no e visciole, li graffioni! Ammazza quant’ereno boni! E persiche? Squisite!
Na vorta ciavevo na fame che ncevedevo e me so magnato le cocce dee fave. Ppputo che SCHIFO! Ar sor Amilcare, invece, je piaceveno, see magnava co tutte e cocce. Pure i cachì che allappavano se magnava. A me me facevano venì na sete che pareva che m’ero magnato le sarache.
Ansomma, annassimo all’Avignonesi. Semo arivati aa stazzione termini cor C1, se semo comprati le fusaje da Giggetto prima de partì a piazza dii mirti, poi quer cojone de Arvaro ha voluto pià er tranvetto e allora se semo separati.
Comunque er cartoccetto de fusaje io moo sò magnato tutto, ancora n’eravamo arivati aa maranella e già l’avevo finite tutte. Er ciccione invece se magnava li bruscolini, ammazzelo che schifo! Aveva smonnezzato tutto er tranve, er fattorino je fa: a maschio, l’animella tua, ma che a casa tua fai ste porcherie? E che sarebbe? Hai zozzato tutto, ammappete, io ‘o farebbe aripulì a tù madre.
Allora l’avemo preso per culo daa stazzione fino ae lazziali, poi quanno che è arivato Arvaro cor tranvetto j’avemo fatto la stira, a sto frocione, così s’empara a fa le cose pe li cazzi sua senza fa a mezzi coll’amichi, sto cicero. Dopo semo iti a fasse na passeggiata a via nazzionale, avemo cioccato un po’ de stragnere ce n’ereno de tutti i colori bionne more rosce ricce lisce buzzicone scrocchiazzeppi zinnone o che c’era passato San Giuseppe caa pialla.
Adavede che robba! A n’americana j’ho detto: dammenbacio, lelletta. Quella me s’è messa a ride, allora Arvaro che è ‘nvidioso me s’è messo de mezzo, sto scrauso, che me piava per culo che ero diventato rosso. M’è annato er sangue all’occhi, mannaggia er tumefatto, j’ho dato un destro. Ahò, secco, li mortacci mia. E’ cascato come na pera. Ciaveva er sangue e la bava e pure l’occhi abbottati. Io me so messo paura, poi quando ho visto che aveva rifatto j’ho detto: a stronzo, si ciariprovi t’apro er culo.
Poi è ita a fenì che er cavallo n’è arivato, ‘a dritta era ‘na sola…
Il vento fuori dalle imposte
muta rapidamente voce
ora un canto sinistro
ora un’aria sospirosa
Le cose le persone
badano a trasformarsi
a prendere altre forme
prima di scordarsi
(Attilio Lolini)