Insalata gerosolimitana

Sono contentissimo quando mi regalano dei libri di cucina esotica. Il più delle volte non sono in condizioni di rifarne le ricette, un po’ per la mancanza di ingredienti, un po’ per la distanza che c’è rispetto ai posti esotici da cui originano le ricette. Nel caso della cucina di Gerusalemme (Yotam Ottolenghi, Jerusalem) c’è roba straghiotta che può funzionare da fonte d’ispirazione, appunto, per combinare qualcosa di diverso. Nel mio caso si è trattato di un’insalata. Ho lessato un paio di patate sbucciate e tagliate a pezzetti in acqua bollente nella quale ho disciolto un paio di cucchiaini di curcuma. Condito dell’insalata mista in busta della Coop (Rucola, lattuga, quello che c’era) con olio, aceto, un trito di timo serpillo, rosmarino e timo normale dei vasi di casa, semi di coriandolo, cumino, un seme di cardamomo, peperoncino secco. Ci ho aggiunto un avanzo di palamita cotta al vapore del giorno prima, qualche alice cotta in padella con cipolla rossa e timo, e, pezzo centrale, un calamaro tagliato a pezzi, cotto alla piastra irrorandolo con succo di limone e d’arancia. Olive kalamata, capperi, pomodorini e il mischione è fatto. Non ho foto, ma il retrogusto delizioso me lo sono portato appresso per ore. E’ cucina finto-gerosolimitana, che si affianca alla fintocinese e alla fintogreca che a casa mia si portano alla grande.

La seicento

Il ragazzo timido aspettava la patente come la manna dal cielo. Aveva studiato scrupolosamente la teoria, fino a risultare il migliore della classe all’autoscuola, facendo solo 6 errori su 2000 quiz. Si era applicato coscenziosamente alla guida, cercando di limitare il numero delle lezioni, che costavano care.

Aveva poi passato in scioltezza gli esami e si era garantito il passaporto rosa per la libertà. Con la patente in mano, non aveva avuto difficoltà a convincere il nonno a privarsi della sua vecchia 600, sostituita con una fiammante 127 verde pisello alla cui guida, per il momento, gli era proibito sedersi.

La 600 era in discrete condizioni, ma aveva bisogno di una sistemata. Il ragazzo timido le dedicò tutti i pomeriggi. Lavorava ai mercati generali, la notte. Arrivava a casa al mattino, dormiva, si alzava verso le tre del pomeriggio, mangiucchiava qualcosa e poi si dedicava alla macchina parcheggiata nel cortiletto davanti casa.

Scintillante, lucidata, incerata, la 600 era di un rosso fiammante. Foderine nuove. Cofano anteriore pulitissimo, acqua e olio controllati scrupolosamente, nuovo portabollo. Disposto in zona invisibile il magnete di Santa Rita con su scritto Vai piano, attaccato dalla nonna. Appeso allo specchietto un Arbre magique zebrato.

Con  precisione il ragazzo timido calcolò che stando attento alle spese nel giro di qualche settimana avrebbe potuto comprarsi un kit di trasformazione per fare della 600 una grintosa 750 Abarth. Nel frattempo si accontentava di lucidare le gomme, dopo il grafitaggio, e di montare la radio. La macchina era ormai quasi perfetta. Il ragazzo timido pensò ancora che avrebbe chiamato il carrozziere per fargli fare una striscia bianca sul cofano, la settimana prossima.

Passò il venerdì pomeriggio dal barbiere. Ne usci soddisfatto, con un capello scriminato a sinistra e dal volume considerevolmente gonfiato col phon e fissato con la lacca. Però gli bruciavano gli occhi per via dello shampoo, come sempre. Si guardò allo specchio e si piacque. Gli venne però da preoccuparsi, pensando a come avrebbe riprodotto il miracolo del capello gonfio la mattina dopo.

Scacciò il pensiero evocando la ragazza bionda che avrebbe atteso sotto scuola l’indomani con la 600 rossa. Aveva preso un permesso al lavoro per prepararsi spiritualmente. La sera uscì a prendere una boccata d’aria, rincasò presto e mangiò di gusto le melanzane alla parmigiana della mamma. Poi, incurante dei tempi tecnici previsti per la digestione, riempì la vasca e si fece un bagno caldo, mentre la mamma guardava Dallas alla televisione.

Quella notte dormì poco, pensando alle migliorie ancora possibili sulla 600 (una marmitta nuova, delle borchie cromate, magari un bell’alettone da mettere sul cofano posteriore) e alle cose che avrebbe detto alla ragazza bionda per invitarla a fare un giro.

L’indomani si alzò presto, fece una bella colazione, indossò i nuovi jeans Spitfire a tubo, maledì le cuciture un po’ storte, infilò le scarpe nuove a punta, nere, ricordandosi mentalmente di fare attenzione a evitare le storte. Una polo bianca, gli occhiali Rayban del marocchino, un pacchetto di Marlboro morbide da tenere sotto la manica, il bicipite reso tonico dallo scaricamento della frutta a impedire al pacchetto di cadere, mostrando anche una certa possanza fisica, il che non guasta.

Si guardò allo specchio, registrando lo sguardo migliore, serio dietro agli occhiali, con le labbra socchiuse. Poi andò.
Parcheggiò in doppia fila sotto scuola. Scese dalla 600 e si appoggiò sul cofano. La radio mandava a volume sostenuto Water of Love dei Dire Straits. Un primo disco della madonna, conosciuto per via di Sultans of Swing, pezzo di maniera cui il ragazzo timido preferiva e di molto Wild West End. Canticchiò tra sé.

Poco dopo sentì la campanella suonare. Si dispose plasticamente sul cofano, col piede destro sul paraurti a mostrare la scarpa grintosa. Accese una Marlboro e aspirò due o tre boccate avide, infuocando la sigaretta. Espirò il fumo con l’aria seria. Non minacciosa. Assorta, ma vigile. Le braccia conserte. Si ricordò di socchiudere le labbra. Poi la vide.

La ragazza bionda avanzava in tutto il suo splendore. Gli occhi azzurri, i capelli lisci, chiari come il grano, lunghi fino alle spalle dritte. Alta, elegante nei suoi pantaloni bianchi con sopra un cardigan rosso come la 600 sfavillante, nella quale il ragazzo timido sognava di tenerla tra le braccia nelle fredde sere d’inverno, ascoltando la musica e guardando le gocce di pioggia scendere sul vetro, tracciando linee che si fondevano incrociandosi tra loro, trapassate dalle luci rosse delle macchine che sfrecciavano, dirette verso qualche dove.

La ragazza bionda avanzava sorridendo, i libri in mano. Al suo fianco il prolifico centravanti della Libertas, con le gambe ad archetto, le spalle larghe, lo sguardo volitivo, qualche segno di barba che copriva l’acne aggressiva. Le camminava al fianco, tenendole un braccio sulle spalle, e le parlava con dolcezza, camminando rivolto verso di lei, mostrando di profilo tutta la poca fronte che aveva.

Il ragazzo timido attese con calma apparente che i loro sguardi si incrociassero, portò la sigaretta alle labbra ed espirò rumorosamente, girandosi a guardare verso l’infinito, bello e dannato. Attese ancora qualche istante, dandosi un tono, mettendo su una specie di ghigno sorridente.

Poi il clacson dell’Alfasud terra di Siena parcheggiata accanto alla 600 lo scosse. “Che mi fa uscire?” chiese fiduciosa una cinquantenne professoressa con le meches e gli occhiali attaccati a una catenella d’oro. “Certo, subito” rispose il ragazzo timido. Salì alla guida dell’auto, mise in moto, ingranò la prima e partì, deciso, mentre la radio attaccava Sultans of Swing.

Fatto di sangue a Centocelle vecchia

La credenza del Vini e olii di Piazza dei Gerani era lucida, come sempre.  Le bottiglie di vini e liquori bene in vista. Il bancone di marmo era alto e faceva sembrare piccolissimi gli avventori. Alfredo ci passò sopra una pezza bagnata, osservando con la coda dell’occhio Memmo, che armeggiava tra le bottiglie di liquore. Dopo aver scelto, Memmo avanzò esitante verso il bancone.

– Buongiorno, Sor Alfré. Prenderei queste.
– Ottima scelta, Memmo. Na bottija de Strega e una de Cognac Tre Stelle. Fanno tremila lire, e tremila dell’antra vorta che sò sei.
– Ecco, je volevo dì giustappunto se la posso pagà domani. Aspetto de finì un lavoretto, devo vernicià le persiane della Sora Ida, giù a Viale delle Gardenie. Ha detto che me dava un acconto stamattina ma stava impicciata…
– A Memmo, sempre la solita storia. Certo che me poi pagà domani, ma sei sicuro che te basteno li sordi? Ce lo sai che te cerca er Caccola, dice che avanza un sacco de quatrini. Essi bravo, pensa a tu moje, a tu’ fio piccolo…
– Sor Arfré, je lo giuro su mi’ fio…
– Nun giurà, a Memmo, lassa perde. Nun se giura sulle creature.
– A me me basta che me rimetto un po’ in piedi. Sò stato male, me faceva male la testa, non ce la facevo a arzamme dar letto. Daje e daje Angelina m’ha rimesso in piedi a forza de sospirà.
– E’ che la bottiglia la dovresti lascià perde’, Memmo. Guarda, vado contro l’interessi mia…
– Ma guardi che io ormai bevo poco. Me serve un goccio giusto pe’ tiramme su, pe’ staccamme dar letto la matina. Sò un uomo pure io, lasciateme avé un vizio. Fumà non fumo, giocà nun gioco…
– Almeno quello. Ma stai attento, con certa gente nun se scherza. Quanti sordi je devi dà ar Caccola?
– Settemila lire.
– E pe’ settemila lire sta così incazzato?
– E’ che je le devo dà da un po’ de tempo, l’ho tirata un po’ per le lunghe. Ma je le do, il tempo de rimetteme un po’ in sesto. Allora io vado, sor Arfré. Nun se preoccupi, appena posso pago. Buona giornata.

Memmo mise in una bustina di plastica le bottiglie, fece ancora un cenno di saluto all’oste, si girò e fece per avviarsi. In quel mentre entrò nel negozio er Caccola, al secolo Alvaro Rustichelli.

– Guarda guarda, io a entrà e te a uscì, eh? Pensa che combinazione. Allora Mé? Quanto tempo è che nun se trovamo faccia a faccia?
Memmo rabbrividì. L’oste osservò la scena, preoccupato.
– Alvaro, nun vojo storie qua dentro, me raccomando a te.
– Niente storie, Sor Arfré. Adesso Memmo qua me dà i sordi che me deve dà e stamo a posto. Lo vedo che sta ingranato, guarda che belle bocce che se compra… Omo de vino nun vale un quatrino, dice, ma a lui che je frega de li quatrini? Tanto ce sta chi je li impresta, è vero Mé?
– Arvà, devi avé ancora un po’ de pazienza – azzardò Memmo.
– Sto a lavorà, appena riscuoto te ridò li sordi tua. Te lo giuro.
– Allora nun se semo capiti. E’ da st’estate che me devi ridà settemila lire. M’hai preso per il culo in tutte le maniere. Adesso tiri fuori i soldi, sennò te faccio assaggià sto cortello…

Con un gesto plateale Rustichelli tirò fuori un coltello a serramanico e fece scattare la lama.

– Boni coi cortelli, ahò! Che siete diventati matti? – Strillò l’oste.
Memmo davanti alla lama del coltello perse la testa, buttò le bottiglie in terra e tentò di uscire dalla porta. Alvaro si frappose. I due entrarono pericolosamente a contatto, sferzati dalle listarelle di plastica della tenda antimosche.
– Viè qua, che nun me scappi. Me devi dà li sordi mia.
– Aiuto! Sor Arfré, chiami la polizia! – Strillò Memmo. L’altro lo teneva per il collo e gli faceva sentire la punta del coltello sull’addome.
– Lascia perde’ la Madama. Andò stanno ‘sti sordi? Cacciali fori!
– Non ce l’ho! Lasciami perdere!

Memmo era molto più forte e robusto di Alvaro, che era piccolo al punto di meritare il soprannome di Caccola. Forzò con le spalle per liberarsi del braccio che gli cingeva il collo, sgomitò, tentò di divincolarsi con la forza. Guadagnato un po’ di spazio, tentò di colpire Alvaro con un calcio. Questo incassò e grugnì.

– A pezzo de merda, ma che me dai li carci? Ma forse nun hai capito che io me te metto all’anima. Te levo dar monno! Tiè, a pezzente!

Con un colpo secco gli affondò il coltello nell’addome. Lo ritrasse e gli rifilò un altro fendente, e poi un altro. Memmo cadde a terra, come un pallone sgonfio. Alvaro si girò verso l’oste e ringhiò:
– Te nun hai visto un cazzo. Se parli te sei fatto li cazzi tua!
E saltò fuori dal negozio, dandosela a gambe.

Alfredo corse a soccorrere Memmo, riverso a terra, sanguinante.
– Nun te preoccupà, Memmo, adesso chiamamo l’ambulanza. Dove t’ha colpito?
Memmo non rispose. Aveva la camicia zuppa del sangue, tanto, che fiottava da tre ferite profonde. Le labbra esangui, gli occhi socchiusi, che fissavano un punto fuori dal negozio.
– Io je li volevo dà i soldi, lo giuro…
– Nun te stancà, aspetta qua, corro a chiamare l’ambulanza – disse l’oste, facendo per staccarsi.
Memmo gli strinse debolmente il braccio, giusto un attimo. Sembrava volesse dire qualcosa, ma non gli uscì un suono dalla bocca. Poi mollò la presa, reclinò la testa e morì.

(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e a persone realmente esistenti o esistite è del tutto casuale).

Top 25 albums 2014

Classifica ottenuta combinando 15 diverse top 25.
Conferma che c’è grossa crisi… Per War of Drugs un vero plebiscito, gli altri seguono a debita distanza. Il mio preferito, Beck, è solo undicesimo.

1 War On Drugs – “Lost In The Dream” (Secretly Canadian)
2 St. Vincent – “S.T.” (Loma Vista)
3 FKA Twigs “LP1”
4 Sun Kil Moon – “Benji” (Caldo Verde Records)
5 Run the Jewels, ‘Run the Jewels 2’
6 Angel Olsen – “Burn Your Fire For No Witness” (Jagjaguwar)
7 Damon Albarn – “Everyday Robots” (Parlophone)
8 Sharon Van Etten – “Are We There” (Jagjaguwar)
9 Caribou – “Our Love” (Merge)
10 Swans – “To Be Kind” (Young God)
11 Beck – “Morning Phase” (Capitol)
12 Aphex Twin – “Syro” (Warp)
13 Todd Terje – “It’s Album Time” (Olsen)
14 Spoon “They want my soul”
15 Mac DeMarco – “Salad Days” (Captured Tracks)
16 Lana Del Rey, ‘Ultraviolence’
17 Flying Lotus, ‘You’re Dead!’
18 Perfume Genius – Too bright
19 Future Islands – Singles
20 Against Me!, ‘Transgender Dysphoria Blues’
21 Real Estate – “Atlas” (Domino, 2014)
22 Cloud Nothings “Here and Nowhere Else” (Wichita Recordings)
23 Goat – “Commune” (Rocket)
24 Jack White – “Lazaretto” (XL)
25 Sleaford Mods – Divide and exit

Zingari

Il 22 ottobre 2008 i prefetti di Roma, Milano e Napoli, al termine del censimento effettuato negli insediamenti delle tre città, hanno consegnato al ministro dell’Interno Maroni un rapporto dettagliato sulle operazioni. Sono stati individuati complessivamente 167 accampamenti, di cui 124 abusivi e 43 autorizzati, ed è stata registrata la presenza di 12.346 persone, tra le quali 5.436 minori. «Almeno altrettanti nomadi rispetto a quelli censiti, circa 12.000, si sono allontanati dai campi dall’inizio di giugno» ha spiegato Maroni.

(dati Ministero dell’Interno)

Quindi, secondo il Ministero dell’Interno, al massimo si può parlare, tra Roma, Milano e Napoli, di 25.000 Rom tra censiti e non censiti, in tre aree metropolitane che superano, complessivamente, i 10 milioni di abitanti. Rapportando il dato alla popolazione nazionale possiamo stimare, alla grossa, 150.000 nomadi da campo.

Non sembrano numeri da emergenza e allarme rosso, però si legge di continuo che la gente è allarmata e non ne può più. La prima volta che ho sentito dire che gli zingari si portano via i bambini ero bambino (ho passato i 50). La prima segnalazione di accampamento di nomadi risale al 1300, l’ha fatta un monaco irlandese di quelli che diffondevano la fede in giro per l’Europa e segnalava un campo fuori dalle mura di Candia autorizzato a stare non più di 30 giorni. Era già emergenza…

Gli “zingari” sono entrati nel programma dell’ingegneria della pulizia etnica nazista, ma anche lì sono stati considerati vittime di serie B, in confronto ai numeri raccapriccianti dell’Olocausto. Parte ancor più marginale agli storpi e ai “freaks” che, nel quadro della selezione della razza, venivano destinati ai forni dai carnefici nazisti. Salvini s’innesta nel solco della tradizione, verrebbe da dire.

La stessa tradizione che dice che i nomadi sono e resteranno emarginati, con meno diritti, condizioni di vita al di là del dicibile, speranza di vita nettamente più bassa dei cittadini di serie A, livelli d’istruzione prerisorgimentali, niente assistenza sanitaria, livelli d’occupazione infimi.

Certo, gli zingari rubano. E’ vero: ci sono migliaia di testimonianze e ancora ricordo i mucchi di stracci che mi trovavo sotto casa, la mattina prestissimo, con loro che, tra lo sciamare di ragazzini sudici che correvano con le loro carrozzine sgangherate, ricevevano tanti rispettabili ricettatori ben vestiti, che prima di fare la spesa buttavano volentieri un’occhiata sulla collanina d’oro nascosta in mezzo ai cenci. Di questo campano, o anche della lettura della mano paracula, con l’occhio che cerca di ipnotizzarti e la maniera entrante che hanno di cercare di prenderti in contropiede.

Non è questo, però, il problema delle città e delle metropoli italiane, per quanto si tratti di una convivenza che è sempre stata difficile. E’ qualcosa che ci tira addosso il nostro scarso senso civico, altra faccia della stessa medaglia che ci spinge, poi, a non protestare per la sporcizia che non viene rimossa in città. Qualcuno aveva proposto, provocatoriamente, di affidare ai Rom un programma di smaltimento e riciclo dei rifiuti. Forse lo farebbero meglio di qualche municipalizzata. Il problema è che li sparpagliano intorno ai cassonetti. Ma non fanno la stessa cosa i cittadini “rispettabili”? E quindi è più importante l’emergenza nomadi o l’emergenza senso civico?

Quelli che buttano le cose

(Prendo spunto dal solito magnifico Zerocalcare e con la scusa lo linko pure)

Non conservo le cose, eppure dovrei. Ma ne uso a milioni, non consumandole. Per esempio, non consumo le scarpe, magari le sporco, ma ho sempre delle resistenze a buttarle. Perché la roba non si dovrebbe sprecare, anche se ne compriamo più di quanta ce ne serve. Costa poco, forse. Mi viene in mente una scritta su un muro che diceva “costa tutto troppo”. Era pre-low cost. E poi si compra una cosa perché è bella. Se si divorano carte e oggetti per l’urgenza di conoscere, poi, il mucchio diventa inestricabile. Bisogna fare spazio alle cose nuove, ma si rischia di dimenticare quelle vecchie. E quando si riprende in mano un libro pieno di polvere si accende un ricordo che esplode come uno starnuto. Così si riempiono solai e cantine in attesa di un Michael Zadoorian che possa svuotarle e recuperare un senso per ogni oggetto, perché racconti storie nuove e viva di una nuova vita.
Ho avuto molto da oggetti rinvenuti per caso, trovati in un negozio dell’usato o regalati da qualcuno. Ricordo un paio di Adidas rotte amatissime, e collezioni e collezioni fatte da altri e tenute “come una reliquia” di cui ho goduto e che ho disperso in mille rivoletti. Non ho mani che tengono, piuttosto maglie larghe che lasciano passare. E poi c’è la sopraggiunta pigrizia che vieta lo slancio catalogatore, sopraffatto dall’eccesso di stimoli da seguire. Quando non c’era il web, invece, riempivo quaderni e fogli elettronici di informazioni catalogate che oggi ricordo benissimo. La memoria a breve, invece, è meno potente. Non so se è pigrizia, o il semplice sottrarsi a sforzi inutili per mettere insieme conoscenze che non servono a niente. Oppure se è colpa di Google…

Il pranzo della domenica

Cominciava presto, con i rumori della fabbrica casalinga. Mani che impastavano, sbucciavano, tagliavano, tritavano, sbattevano. Profumi e vapori che si attaccavano ai vetri, quando pioveva. Sole che entrava dalle finestre spalancate, se era bello. La radio con Gran Varietà. Si usciva a fare un giro, vestiti bene, pettinati con la sgrima, odorosi di pulito. Qualche volta ci scappava un maritozzo, o un caffè con la ricotta, che era uno strappo alla regola del caffè solo nel latte.
Poi si rientrava di corsa, con la luce che era cambiata e le macchine che diminuivano sempre più. E si scopriva l’odore dei sughi, il calore dei brodi, l’irregolarità della pasta fatta in casa, la lunghezza dei tagliolini, la ricchezza delle lasagne, il ripieno dei ravioli, e il pane per la scarpetta, le patate al forno, il pollo croccante, l’arrosto morbido, il dolce con la ricotta. Era una sinfonia di creazioni magiche. Di casa.

Caro Parma, solidarietà. La dignità non ha prezzo

Oggi il Parma ha chiuso la propria storia calcistica e gira pagina per cominciarne un’altra. A questo punto della stagione è una sofferenza enorme, ma anche un gesto di dignità.
A spingere verso la chiusura la situazione societaria e l’assenza totale di una guida, dopo il susseguirsi di interventi nefasti da parte della vecchia proprietà e delle “nuove proposte” offensive per una città e per un club che hanno grande dignità.
I “crociati”, andando con le proprie gambe verso il fallimento, eviteranno però ulteriori umiliazioni: quelle di chi in settimana non sa cosa rispondere ai fornitori e vorrebbe gridare in risposta alle loro urla che non prende lo stipendio da mesi, che non riesce a mettere a disposizione i mezzi necessari a chi deve far marciare il settore giovanile, con la benzina da pagare per i bus che trasportano gli atleti, l’acqua fredda perché non hai pagato il gas, la corrente staccata, il telefono muto, internet assente o a bassa velocità, la carta e il toner che finiscono, le assicurazioni scadute, le colazioni, i pranzi e le cene da pagare ai bambini e ai ragazzi che sono lontani da casa, i medici, i massaggiatori, i preparatori, le segretarie, gli accompagnatori, gli impiegati, gli steward da pagare, e tutti che lavorano gratis e hanno debiti da onorare e famiglie da sfamare ma stanno sul pezzo sopportando tutto e aspettando che succeda qualcosa perché non muoia un’emozione.
A tutta la gente che lavora nel Parma un abbraccio solidale.

Napoli

Era un giorno di giugno. 1988. Mi chiamarono e mi dissero che dovevo trasferirmi temporaneamente a Napoli, per sostituire un collega che andava in congedo matrimoniale. Partii con la mia R4 e tornai un anno dopo. Il primo periodo lo trascorsi a Ponticelli, dormendo in baracca in un cantierone dove si costruiva una linea ferroviaria vesuviana. Da lì mi spostai in centro, dove nasceva la leggendaria LTR cantata da Bennato.

Io stò ‘e casa
a Fuorigrotta
e vulesse na risposta
pe piacere,
si qualcheduno e vuieo sà,
m’ o dicesse
sotto viale Augusto che ce stà?…
Pe duie annee duie
mise’o rummore
m’ha acciso
notte e ghiuorno,
ma cheteneveno a scavà…
m’ o dicite
sotto viale Augusto che ce sta?…

C’eravamo noi.
Un anno fantastico, vissuto a Napoli, in pieno centro, lavorando come un pazzo ma anche divertendomi un mondo. Colleghi locali stupendi, una città che strappa l’anima a brandelli, di una bellezza incomparabile. Il mare, i dolci, la pizza, i negozi di dischi, i napoletani che ne inventavano di tutti i colori. Gli ingorghi assurdi al Rettifilo, a Via Argine, a Via Marina. La stazione allagata a ogni pioggia a Piazza Garibaldi, i cavalcavia che finivano nel vuoto, i tramonti scendendo da Posillipo, il parcheggio che dava nel dedalo di grotte, tra cave di pozzolana e carcasse di macchine rubate…
E’ passato tanto tempo e Napoli mi manca ancora. Ci sono tornato soltanto tre volte, di passaggio: due aliscafi a Mergellina e un funerale illustre. Ma ce l’ho nel cuore. E non smetto mai di ringraziare chi mi ci mandò, cambiandomi la vita in meglio.