Aleksandr Blok a Siena

Arrivammo a Siena dal sud, nel crepuscolo roseo del giorno che si spegneva.

Un vecchio albergo, “La Toscana”. Nella mia piccola camera, all’ultimo piano, è aperta la finestra, io mi sporgo per respirare l’aria fresca dei monti dopo l’afoso vagone….Dio mio! Il cielo roseo si spegnerà subito completamente. Da per tutto torri aguzze, da qualsiasi parte si guardi, sottili, leggere, come tutto il gotico italiano, sottili fino all’insolenza, e tanto alte come se mirassero proprio al cuore stesso di Dio. Siena, più audacemente di tutti, gioca al severo gotico, vecchio bimbo! Ed anche nelle Madonne dagli occhi oblunghi c’è una insolente malizia: sia che guardino il bambino, sia che lo allattino, o umilmente accolgano la buona novella di Gabriele, o semplicemente il loro sguardo si volga nello spazio, c’è in esse una certa maliziosa dolcezza felina. Infuri la tempesta dietro le loro spalle, o scenda placida la sera, esse guardano con gli occhi oblunghi, non promettendo, non dissuadendo, battendo soltanto le ciglia alle fantasie guelfe degli affaccendati uomini vivi. Questi vivi, una volta, erano veramente immersi fino agli occhi nelle faccende, invidiosi sempre dei ghibellini, e guerreggiando continuamente con la vicina Firenze. Per eccitar l’invidia dei ghibellini fiorentini, i senesi eressero il loro Palazzo Pubblico, di proporzioni non minori del Palazzo Vecchio fiorentino, e molto simile ad esso. Solo che, sulla piazza, non sta il Marzocco col giglio, ma una lupa affamata con le costole sporgenti che allatta i piccoli gemelli.

Ma il Palazzo Vecchio, a Firenze, è una tetra abitazione di pipistrelli; in qualche parte, là molto in alto, vi si era rifugiata l’anemica e pigra Eleonora di Toledo col suo biricchino e crudele ragazzino, suo figlio, che vi fu poi strozzato in una notte di tempesta; là pure, in una notte di tempesta piena di tetre visioni e presagi, era morto Lorenzo il Magnifico. Tutto questo lasciò la sua traccia incancellabile, avvolse per sempre nel mistero l’edificio già di per sé cupo, uno dei più tetri d’Italia. Nel Palazzo senese, invece, non c’è nulla di tetro, né all’esterno né all’interno, sebbene la disposizione sia simile; ma le mura di Palazzo Vecchio sono vuote, nude, e quelle del Palazzo Pubblico senese sono dipinte dal Sodoma, il più geniale e il più volgare allievo di Leonardo.

Tuttavia, sullo sfondo roseo della sera, mi colpisce non soltanto la sottigliezza delle torrette senesi. Più sorprendente di tutto è che la più imponente fra le torri è adorna di lumini. E’ una sera domenicale, e appena scendera l’oscurità, in piazza, s’intende, suonerà la banda militare.

Una fiumana di gente mi trascina dalla porta dell’albergo. Sulla via principale, quasi subito, dalla via a sinistra, scendono alcuni gradini e attraverso un passaggio coperto che a Venezia si chiamerebbe sottoportico, scende in piazza.

Davanti a me è lo splendore del Palazzo, adorno di lumini su molte file. Sotto la lupa zufola modestamente la banda. Tutta la piazza rappresenta un semicerchio concavo nel quale, qua e là, cresce l’erba. Il Palazzo sorge al margine inferiore, la sua facciata occupa quasi tutto il diametro, ed io lo vedo tutto davanti a me dal punto più alto, dalla famosa fontana Gaia.

Qui, una volta, avevano luogo le assemblee del popolo. Anche adesso la piazza formicola di gente. La sera è tiepida e le donne indossano vestiti leggeri, variopinti. La luna è un po’ opaca, i vecchi lumini lo sono ancora di più, la banda è nascosta dalla folla, e la musica non è molto complicata. Se non si fa troppo attenzione ai visi e ai vestiti, ci si può trasportare nel medioevo e vivere ad occhi aperti una fiaba di Hoffmann. A ciò contribuisce l’estrema ingenuità delle italiane che vengono qui con l’evidente e non celato scopo di farsi vedere, se piacciono a se stesse, o di guardare le altre, se esse stesse non sono belle. E le carine e le bruttine si divertono egualmente, e vanno egualmente avanti e indietro, povere e ricche, belle e brutte, giovani e vecchie. Straordinariamente pure e senza alcun pensiero recondito sul viso. Probabilmente, per una tanto innocente allegria bisogna nascere in Italia.

I lumini si spengono, la banda ammutolisce, le fanciulle se ne vanno a dormire. E’ terribilmente triste rimanere di sera, solo con la luna così di buon’ora. Giovanotti innocentemente ubriachi girano in gruppo e cantano. Balena un’ombra dietro una finestra e la luce si spegne. La piccola bettola delle “Tre fanciulle”, in un ripido vicolo, ammicca con la sua unica lanterna.

Aleksandr Blok, Molnii iskusstva, in Sobranie socinenij. Mosca-Leningrado,1962. In: Ettore Lo Gatto, Russi in Italia. Roma, Editori Riuniti, 1971.

Alice

Alice era una gatta bianca e grigia. Me l’aveva lasciata in custodia un’amica e, come spesso accade in questi casi, era poi rimasta a me. Io poi l’ho lasciata a mia madre quando mi sono trasferito a Siena, tre o quattro anni dopo.

Una gatta fifona, agilissima, con il naso grosso e una coda lunga lunga, dotata di forza fisica superiore per un animaletto di quelle dimensioni. Faceva le fusa così forte che tossiva, qualche volta. Per dormire ti si appoggiava addosso col fianco e se leggevi veniva a morderti le mani e il libro. La mattina ti svegliava all’alba per mangiare e poi si rimetteva giù a dormire, ma se le davi una sculacciata dormiva subito e faceva le fusa.

Aveva un carattere un po’ strambo, se le facevi le carezze dopo un po’ ti mollava uno schiaffone sulle mani. Una volta da piccola era scappata e si era nascosta nel ripostiglio delle scope in fondo alle scale, dov’era rimasta tutta la notte. Da lì in poi non era più uscita dalla porta, salvo i viaggi in trasportino dal veterinario o per la villeggiatura estiva, quando finalmente poteva sfrenarsi in campagna. Quando mi vedeva arrivare capiva che l’avrei riportata a Roma e se la svignava cercando di rendersi irreperibile.

Una brutta infezione, al muso, se l’è portata via nel giro di qualche mese. Le medicine non sono servite. E’ stata vispa fino in fondo, però. Come tutti i gatti che abbiamo avuto, in famiglia, ci ha reso la vita migliore, senza chiedere in cambio che qualche pesciolino, qualche carezza, e di sottostare a tutte le angherie a cui sanno sottoporti i gatti. Era un fenomeno ad aprire le porte, dovevo tenere chiuso a chiave altrimenti spalancava la porta di casa e poi non usciva. Da piccola adorava i fili elettrici, mi ha mangiato una settantina di mouse credendo fossero topi.

15 anni sono volati, questi amichetti hanno vita troppo breve. 

La Qualità

“Se volete costruire una fabbrica, o riparare una motocicletta, o dare un assetto a una nazione senza restare bloccati, allora la conoscenza classica, strutturata, dualistica, benché necessaria, non è sufficiente. Bisogna avere almeno in parte il senso della qualità del lavoro. Bisogna avere l’intelligenza di cos’è buono. E’ questo che vi porta avanti. Questa intelligenza non è una cosa con cui si nasce, benché in effetti si nasca insieme ad essa. E’ anche qualcosa che si può sviluppare. Non è soltanto “intuizione”, non è “capacità” o “talento” inspiegabile. E’ il risultato diretto del contatto con la realtà fondamentale – la Qualità – che in passato la ragione dualistica ha cercato di nascondere”.

(Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta – Robert M. Pirsig, 1928/2017. In memoriam)

 

25 aprile

E’ calata la sera e di pipponi per oggi ne abbiamo sentiti abbastanza. Del 25 aprile si affievolisce pian piano il senso, passa il tempo e le ragioni dell’antifascismo sembrano farsi sempre più deboli. La vicenda di Gabriele Del Grande, che per fortuna si è conclusa felicemente, ci ricorda, però, che ci sono luoghi vicini e “amici” dove la democrazia si dà al gatto, fregandosene di tutta la libertà che qui diamo per scontata e che la lotta di liberazione ha riconquistato, 73 anni fa, a costo di sacrifici enormi.

Spero che questa dimenticanza non ci esponga a duri risvegli.  Le ingiustizie sociali e le tensioni di tutti i giorni ci dicono che nel nostro Paese c’è un pericolo per la democrazia che è dato dalla disattenzione verso i più deboli e dall’incapacità dello Stato di garantire alcuni diritti sanciti dalla Costituzione. Occupazione, salute, sicurezza, pace, istruzione: niente di scontato, il 25 aprile 2017. Su questo si misura la qualità della nostra democrazia. Le risposte stanno alla politica, quella vecchia e quella nuova, che nei luoghi istituzionali pari sono.

Riprendiamoci il nostro tempo, chiudiamo i negozi quand’è festa

L’apertura domenicale/festiva dei negozi raramente risponde a delle vere necessità. Cerca, piuttosto, di creare bisogni. Bisognerebbe, però, fare i conti dell’incremento reale delle vendite del singolo negozio/esercizio, tanto per vedere a chi davvero conviene.

Quando i negozi erano chiusi la domenica e osservavano orari standard e turni di riposo regolari si faceva la spesa e si comprava tutto senza problemi. Gli orari di apertura erano congegnati in modo da creare disponibilità per tutti i tipi di clienti, qualche difficoltà in più ce l’aveva, semmai, proprio chi seguiva orari da negozio.

La liberalizzazione delle aperture crea due ordini di problemi: uno di concorrenza, con gli esercizi che sono costretti a coprire orari più lunghi, l’altro di correttezza nei rapporti con i lavoratori, che vedono lievitare l’orario ma, spesso, non la retribuzione, e che si trovano a osservare turni di riposo che li tengono lontani dalla famiglia e alimentano il problema di reperire spazi per i bambini e assistenze che non siano quelle dei nonni, nei turni coperti dal lavoro.

Il tutto non serve ad accrescere il volume degli affari degli esercizi commerciali in generale, che per forza di cose è soggetto agli stessi limiti, dati dalla disponibilità di spesa dei clienti. Serve soltanto, semmai, a polarizzare i ricavi nelle mani dei più potenti e dei più furbi. Bisogna cambiare. L’unica via sarebbe non comprare niente a orari o in giorni non standard.

Facebook memories

Leggo questo simpatico post di Claudio Caprara e non posso fare a meno di essere d’accordo: facebook raccatta un sacco di improperi quotidianamente da tutti, ma ha il pregio di riconnettere persone che altrimenti si sarebbero perse di vista. Ma si ricordano.

E’ una bella cosa, a meno che (in qualche caso) non fosse stato meglio essersi persi di vista. Alcuni dicono: se nun se semo visti per vent’anni una ragione c’è. Vero, ma se ne può sempre riparlare. Anche per concludere che era meglio essersi persi di vista.

Chi conduce esistenze litigiose e burrascose può ripensarci e rimettere in piedi contatti persi, per poi, se è il caso, rilitigarci. Dipende da come si considera l’amicizia: c’è chi riesce a gestire a malapena un amico (reale) per volta e chi crede di averne di virtuali a centinaia e si sente ricco così.

Poi ci sono quelli che avevano lasciato qualcosa in sospeso e riprendono il filo. Avevano conti da regolare, promesse da mantenere. Ricordi da ricordare.

Io dei miei 734 amici su facebook ho stima. Li conosco di persona quasi tutti, almeno i due terzi. Quelli che mi stavano antipatici li ho eliminati, quelli che mi hanno eliminato non li ho ricontattati.

Alla fine facebook svolge una funzione meritoria: ci teniamo informati sulle cose che fanno i nostri amici, parenti e conoscenti, ci facciamo gli affari degli altri, abbiamo un pulpito da dove predicare. Gratis.

In cambio Zuckerberg immagazzina le nostre informazioni: che ci farà mai?

I soldi, ci fa.