Empatia, emozione. Cuore

Tutti parlano dello spaventoso omicidio di Civitanova Marche.
Della morte assurda del povero Alika e dell’indifferenza di chi ne è stato testimone, alcuni attivi nel modo sbagliato, scattando foto e registrando filmati invece di fare qualcosa per impedire che l’uomo venisse ucciso da quell’assassino.

Non saprei definire una reazione spontanea in un contesto simile. Se a intervenire ti può spingere una reazione emotiva pura, di quelle che ti fanno gridare no, o anche soltanto l’empatia che ti fa provare pena per chi subisce una violenza.

Bisognerebbe trovarcisi per capire. Una volta soltanto mi è capitato un episodio, infinitamente meno grave, in cui sono intervenuto senza pensarci un attimo, agendo in automatico.

C’era un ragazzo che aveva protestato vivamente con un energumeno che ululava all’indirizzo di un calciatore dalla pelle scura (non ero a una partita della Lazio, non tirate facili conclusioni).

L’energumeno aveva preso a minacciarlo esplicitamente. il ragazzo si era visibilmente spaventato. Così pochi istanti prima della fine della partita si era alzato di scatto e aveva guadagnato l’uscita della tribuna, inseguito dall’energumeno che voleva aggredirlo.

Notando il movimento mi sono messo a rincorrerli senza pensarci due volte, seguito dal mio vicino di posto, per cercare di impedire l’aggressione del ragazzo. Li ho trovati che erano venuti a contatto e li ho divisi, portando via il ragazzo mentre il mio vicino di posto teneva a bada l’energumeno.


Tutto avvenne molto rapidamente, ma fu come essere agiti, più che agire: venne tutto da sé. Non mi rendo conto di come sia possibile, perciò, assistere inerti a un delitto così efferato e contemporaneamente privo di elementi respingenti: l’assassino non era armato, in apparenza, e bastava forse farglisi intorno in più d’uno per riuscire a farlo desistere, o comunque a fargli smettere l’azione che ha portato alla morte di Alika.

Un uomo indifeso, claudicante, innocente. Come può non suscitare una reazione empatica, o anche una semplice emozione che porti qualcuno a gridare, a intervenire, a compiere un gesto generoso, di cuore?

Non so rispondere.

Mi rendo conto che la mediazione esercitata dal telefono, per alcuni, s’è interposta al senso della realtà, producendo una dissociazione: il mezzo ha filtrato l’immagine fino a farla sembrare uguale a quelle che scorrono sulle timeline dei social, che siano su instagram o su youtube o che.

Così quello che inquadrava lo smartphone è diventato improvvisamente distante, degno di nota e di documentazione perché non tutti i giorni capita di assistere a un pestaggio mortale in diretta, ma non abbastanza coinvolgente da stabilire che fosse il caso di posare il telefono e intervenire per salvare la vita a un essere umano.

Io non so se sarei stato capace di intervenire. So che chi c’era non c’è riuscito. Le ragioni possono essere tante. Come tante possono essere le ragioni che stanno dietro alla rabbia di un pazzo che si scatena all’improvviso, per i motivi più stupidi del mondo.

Un pazzo che, uccisa la vittima inerme in mezzo alla folla inerte la spoglia, se ho capito bene, dell’orologio e del telefono e si allontana come niente fosse. L’assenza totale del cuore. Non c’è commento che stia in piedi: un cosa triste e inquietante, spaventosa, preoccupante.

Forse succede perché da tempo si scivola sul piano inclinato dell’insensibilità. Forse a innescare l’odio è l’incapacità di mettersi nei panni dell’altro, di capirne i gesti e le intenzioni, di accettare di dividere con lui uno spazio, un respiro, un momento incidentale della vita.
ci vuole cuore

Grasso

L’altro giorno, mentre schiumavo nudo bruco sul divano per colpa dei tremila gradi di questa estate esagerata, mi sono messo a chiacchierare, senza farmi sentire da nessuno, con la mia pancia, che se ne stava lì, tutta seria, cercando inutilmente una strada per avvicinarsi al pavimento e ricongiungersi, non senza lamenti, col centro di gravità che tende a chiamarla a sé, incurante degli sforzi fatti, col sovrapprezzo della calura, per intostare gli addominali.

Un po’ come se uno cercasse il perdono nei crunch addominali per i troppi crunch fatti addentando panini, pastasciutte, gelati, formaggi e salumi, trangugiati con l’aiuto del glu-glu di una birra bella fresca o di un vinello di quelli giusti. Burp. Pardon.

La mia trippa ridacchiava, a sentirmi. Faceva delle sottolineature credendo non la ascoltassi, come quando mi ha fatto l’eco per prendermi in giro: l’ho sentita distintamente mormorare sarcastica un lardominali per addominali e un tette per pettorali, ma non mi sono offeso. Se la fonte del bodyshaming è il tuo stesso corpo non ci puoi fare niente, tocca prenderla con filosofia.
un tipo fino
Parliamoci chiaro, chiunque abbia incrociato le immagini dei campionati del mondo d’atletica avrà notato come si modella il corpo con l’attività fisica spinta alle estreme conseguenze, unita a un’alimentazione adeguata.

Mbè, è roba che fa male alla salute, per giovani invasati pronti a finire all’ospedale pur di raggiungere un obiettivo.

Noi, però, siamo gente normale. La trippa annuisce: l’over 90 attuale è stato raggiunto dopo aver smesso di fumare, l’over 80 arrivò dopo un soggiorno napoletano lungo un anno, l’over 70 con la maggiore età.

Nel frattempo ai chili in crescita s’è aggiunta la fuga dei capelli, ma nel rapporto con la bilancia le due grandezze non sono commensurabili tra loro.

Il problema della conformità ai modelli fisici che meglio ci farebbero sentire accettati viaggia sullo sfondo. E si trascina dietro la questione del body shaming, che è una delle frontiere del politically correct ma è anche un modo per dare un nome a qualcosa che c’è sempre stato.

Chi non ha mai dato del ciccione a un compagno di classe sovrappeso alzi la mano. Ecco, adesso la cosa sta debordando, per colpa dei social e del bullismo sdoganato come fosse una roba cool. Senza addentrarmi nelle schifezze che leggo, di trucchi ignobili messi in piedi per prendersi gioco di amici, compagni e conoscenti che vengono messi alla berlina.

Un sottoprodotto da classificare nello stesso scaffale del revenge porn, per quanto lo si ritenga meno devastante, da un punto di vista psicologico. Niente a che vedere con me, mi interrompe la panzetta, piccata.

Mi tocca rimproverarla, visto che per colpa sua sono costretto a trattenere il fiato quando incrocio qualche giovane amica, tentando di nascondere le evidenti rotondità. Facciamo pace mangiando un paninetto col prosciutto.

Siamo vittime prima di tutto dello sguardo che rivolgiamo allo specchio e dell’immagine che ci attribuiamo in rapporto a certi modelli. Però attenzione: è vero che il sovrappeso crea problemi di salute, ma non è questo il punto. Sono tante le cose che creano problemi di salute, e molte di queste non siamo in grado di controllarle efficacemente.

Così, essere sovrappeso, su su fino alla grassezza totale, se anche si riconduce (ovviamente) a un rapporto alterato col cibo, rientra nelle possibili configurazioni individuali che vanno accettate. Non c’è bisogno di considerarle sconvenienti ed è sbagliato (è un’aggressione) descriverle usando termini derisori o mutuati dalla medicina, di cui non è giusto abusare. Anche perché meglio obeso che stronzo.

Attraversando tante fasi diverse il corpo si modifica e sappiamo bene in quali momenti ci si sente meglio che in altri. Però il corpo è l’unico che abbiamo e ci tocca accettarlo. Né l’essere più belli, più magri, più forti, più coordinati ci mette in una posizione di privilegio, se non nelle dirette applicazioni di certe qualità.

Quanto alle relazioni, prima o poi l’amore arriva.

Conviene aspettarlo cantando.
Maigrir
à tout prix devenir fin,
élancé, rester dans les normes
Éviter les débordements
Comment
devenir fin sans
devenir fou?

Crisi

I somari dell’ultimo banco, dall’alto della loro indennità di parlamentari, hanno tirato una secchiata di merda al professore tecnocrate classista.

Lui se ne tornerà nei palazzi che lo apprezzano, loro resteranno lì tra rutti e score fino alla fine della legislatura, quando ai ciampolilli si sostituiranno altri ciampolilli, intonando canti di marce su Roma e primavere di bellezza. Il Paese? Basta fare un giro per rendersi conto di dove siamo: temperatura fissa over 40, cumuli d’immondizia, infrastrutture devastate, disoccupazione galoppante, disinformazione sistematica, persecuzione della cultura, battaglia a colpi di insulti tra capiscioni e somari, accomunati in un polverone che non distingue cialtrone da coglione. Tutta la deriva va avanti da tempo, con le ignobili zozzerie consumate emergenza dopo emergenza.

Si riavvia una campagna elettorale mai fermata, con la Capitale come rappresentazione perfetta dello sfascio nazionale.

Che il primo partito in pectore sia innervato dei peggiori vizi possibili non rileva: abbiamo fatto il pieno, siamo antiabortisti, antifemmine, antigay, antilavoratori, antidemocratici, antimmigrati, guerrafondai, amici di Orban, di Putin, di Bannon, legati a doppia mandata a case pound, forze nuove, nostalgie assortite.

Spaliamo merda fasulla su ogni social da anni, tutti insieme appassionatamente, e ci sediamo ognuno dove vuole far finta di stare: pd travestito da partito di sinistra, fdi travestito da partito che rispetta la democrazia, lega travestita da partito italiano, M5s travestito da partito, Renzi e Calenda travestiti da responsabili, Berlusconi con la fidanzata che lo porta al guinzaglio, e un eccetera lungo tremila righe.

Meritiamo ogni rovescio della sorte, da Draghi in giù.

Spero però che la gente si scuota e vada a votare, perché a questo punto, dopo il Papeete e dopo Draghi, c’è la discesa negli inferi convinti che siano un simpatico paradiso tropicale. E si sa che al peggio non c’è limite.

Almeno votiamo, non si sa per chi ma andiamo a votare. Bisogna andarci in tanti, una risposta ci vuole.

Lo Zen e l’arte della manutenzione del monopattino

Cari amici, viviamo tempi strani.

L’altra sera, sul tardi, mentre sfilavo verso il parcheggio dove avevo lasciato la macchina, ho notato un ragazzo e una ragazza, seduti su un marciapiede, con le gambe allungate, immersi in una piacevole conversazione, apparentemente piena di promesse d’istanti di gioia e finanche d’infinito.

Una di quelle situazioni, insomma, che tu sospiri e dici eh, ai miei tempi sì, che anch’io je l’ammollavo. Allargando l’inquadratura di un palmo, però, appariva un particolare: abbandonato contro il muro, un po’ sbracato, appoggiato con un angolo di manco 45 gradi, c’era un monopattino elettrico.

Che stava lì, con un’aria indifferente, come quelli ammucchiati abbandonati sui marciapiedi a Roma, ma solo. Sembrava dire non guardate me, non c’entro niente, mica è colpa mia se non sono una motocicletta di quelle non dico da Hell’s Angels, ma almeno, che so, uno Stornello della Guzzi.

Sono tempi da monopattino. Ma non posso immaginare un Che Guevara del terzo millennio e i suoi diari del monopattino, oppure Marlon Brando, di cuoio vestito, che ti guarda con aria di sfida, in groppa a un monopattino. Anche questo dà la misura di un tempo grave, pericolosamente imbruttito e privo di uno straccio di fuoco sacro.

C’era una volta il monopattino artigianale, fatto mettendo insieme pezzi di tavola, cuscinetti a sfera, catadiottri rimediati non si sa come e varie combinazioni di pittogrammi, adesivi, apposizioni di borchie, gomme piume, freni improbabili e manubri pericolosamente vicini all’asfalto. Costruirsi un monopattino, accucciarcisi sopra e gettarsi a capofitto su qualche discesa rompicollo era, quella sì, una prova di coraggio.

Come tale, a me proibita.

Era la palestra e il prologo per le prove più spericolate a venire: il Ciao, la Vespa, e poi la moto. Le ragazze andavano pazze per le moto. Le moto frullavano rombi inconfondibili. Una Harley Davidson o una Guzzi erano inconfondibili. Le giapponesi, poi, stimolavano l’immaginario più esotico, evocando affilatissimi spadoni di perduti implacabili samurai.

Nessuna ragazza si sarebbe sognata di affidare il cuore al conducente di un monopattino elettrico. Già lo stare in piedi su un oggettino del genere ha un che di poco eroico. Starci con un caschetto, poi, rinnega decenni di gloriosi capelli al vento e di sfida al mondo. Nessuno mai avrebbe tirato giù a fucilate degli easy rider in monopattino, al massimo gli avrebbero fatto un gavettone o dei canzonamenti omofobi.

Ma la decadenza è cominciata ben prima, quando si è accettato che lo scooterone di plastica, indegno epigono spoglio della vespa mod, assurgesse alla categoria di motocicletta. Da lì in poi ogni deriva era possibile.

Intendiamoci, non mi sento parte in causa, sono talmente pecione che fatico a condurre una bicicletta, figuriamoci se schifo il monopattinista. Il mio lamento è per tutti quelli, a partire dallo zio caduto di cui porto il nome, che hanno reso gloriosa la moto, con il loro sprezzo del pericolo e delle intemperie, incarnazioni concrete degli Arcovazzi avventurosi, saltabeccanti tra buche, buche con acqua, buche con acqua e con sasso, o fango.

A proposito, quello che guidava Tognazzi era un sidecar. Meno suggestivo della moto cavalcata come moderno destriero per cavalieri coraggiosi, ma ugualmente iconico, come dicono quelli che parlano bene e (talvolta) fanno cacare. Ma un monopattino sidecar non è dato. Il monopattino artigianale, invece, poteva essere tranquillamente biposto, dotato di ogni comfort, almeno a livello di immaginazione. Quella che manca.

Il rombo dei cuscinetti era il preludio al ruggito del motore. Il monopattino elettrico, invece, sibila. Triste il tempo in cui al nobile destriero si sostituisce l’insulso sibilante veicolo. Don Chisciotte non accetterebbe mai di salirci sopra per lanciarsi contro i mulini a vento. E sì che montava un ronzino.

Anzi, un ronzinante.

Controllo

Cari amici, finalmente sono fuori dal Meteostop creato dal monsone di giovedì sera. Fulmini, saette, tròni e làmpi hanno messo a dura prova la mia antenna, bloccando la connessione a internet per qualche giorno.
La tempesta era stata causata, in parte, dall’esibizione spettacolare, documentata in foto, di un gruppo di danzatrici scatenate, capitanate dalla cara Francesca, nello scenario suggestivo del chiostro dell’Accademia dei Fisiocritici, con tanto di antichissimo scheletro di balena a presidiare la scena.
Non ho mai avuto particolare interesse per la danza, da spettatore. In realtà fino a un certo punto quasi non pensavo esistesse. Un mio caro amico d’infanzia era versato per le Arti più nobili, fin da quando ebbe a denominare Nabucco una parte di sé piuttosto consistente.
Era sufficiente misurarne a occhio le dimensioni per comprendere la ragione della scelta di un nome così altisonante, anche riecheggiante arie verdiane che non disdegnavamo di cantare, nelle sere d’inverno, ignari dell’uso improprio che ne avrebbero fatto, tempo dopo, orde di valligiani di verde vestiti. La sconcia lunghezza, insomma, trovava rappresentazione nel nome del sovrano babilonese che ispirò il geniale operista..
Il mio caro amico, oggi valente pianista, ebbe un dì ad appassionarsi per il balletto, un po’ di rinterzo, frequentando gente appassionata a sua volta, e non, o non soltanto per i biechi scopi che pensano i maligni. Mi chiesi, al tempo, che interesse ci potesse mai essere nella visione di uno spettacolo del genere, se non nella possibilità di ragionarne, dopo, davanti a una cena squisita, seguita da un cicchetto di quello buono e dalla visione in privato della proverbiale collezione di stampe cinesi.
Col tempo mi sono reso conto, però, che la danza è una straordinaria prova di controllo del corpo nello spazio, e le ragazze della serata dei Fisiocritici, rappresentando il loro Penelope X, hanno dimostrato quanto si possa creare, in termini di bellezza, coordinandosi in coreografie armoniose e impressionanti.
I ciondolanti accaldati e dolenti che popolano le corsie del supermercato in questi giorni difficili offrono ben altro spettacolo. La tonnara dei carrelli nel reparto ortofrutta è anche lei rappresentazione (opposta) del controllo del corpo nello spazio: gente che sciama senza meta, si urta, ostruisce passaggi, si salda al carrello sdraiandosi e lasciandosi veicolare languidamente dalle ruote, intercettando qua e là un cartone di uova, una sottiletta, una verza, un petto di pollo, uno spicchio di grana.
Per tacere di quello che accade usciti dal parcheggio: la schiera dei ventialloristi è in servizio permanente, decisa ad alimentare il suo moto rettilineo uniforme, incurante degli stop, dei semafori, dei dare precedenza e della presenza degli altri sulla strada. La stessa convinzione del SUVista, che procede invece a velocità sostenuta ma non si cura, nemmeno lui, degli altri, ritenendo che la strada sia a sua esclusiva disposizione. Così abbaglia, sgassa, sorpassa. Stanca.
Mi costringono a parlare di argomenti futili (a parte il discorso sulle bravissime danzatrici) le immagini terrificanti del rogo degli sfasciacarrozze di Viale Palmiro Togliatti. Scene apocalittiche da Roma Est, più Torre Spaccata che Centocelle: carcasse di macchine vecchie che ardono, con il loro corredo di benzine e copertoni ad appestare l’aria, e gente costretta a lasciare temporaneamente la propria casa, lambita dalle fiamme.
Roma che brucia di caldo e di vergogna. Uno spettacolo triste. Meglio la danza.

Cuando calienta el sol

Cari amici, diciamocelo: fa un po’ caldino. Ora non sarà mica per via del surriscaldamento del pianeta, o meglio, non sarà mica colpa dell’uomo: magari c’è un virus che attacca il pianeta madre come quello che attacca noi, che si sa che l’ha messo in giro Bill Gates, già attivo al tempo degli antichi egizi con la minchiata, poi reiterata nei secoli, della Terra fatta a pallone, anche se un po’ schiacciata ai poli.

Da secoli ci ammorba con questa panzana, una volta si fa chiamare Pitagora, un’altra Copernico, un’altra ancora Galileo, poi si mette sotto un albero e si fa cascare in testa le mele tanto per pigliare in giro Steve Jobs, ma è sempre lui, nei suoi molteplici travestimenti. Bill Gates.

Ora non gli bastava il virus farlocco per far inoculare a tutti il siero surriscaldabile attraverso gli impulsi del 5G, s’è messo a squagliare i ghiacciai per aumentare il livello del mare, perché secondo lui a Seattle fa troppo freddo e d’accordo col sindaco rettiliano ha stabilito una tabella di marcia serrata per alzare la temperatura di una decina di gradi e impiantare una coltura di ananas in Alaska.

Intanto Elon Musk ha lanciato una decina di progetti raccogliendo qualche miliardo di dollari dalle borse americane, sempre pronte a investire nell’asinello rosa che vola e canta le canzoni dei Red Hot Chili Peppers in antico Navajo o nel tostapane a energia eolica che produce un delizioso panino imbottito con 12 tipi di companatico combinando secondo algoritmi segreti alcuni elementi chimici che si materializzano pronunciando antiche formule rituali provenienti dal baule del mago di Id.

Il TG2 invita gli anziani a bere molto, stare in casa, uscire solo per recarsi al centro commerciale, vestiti leggeri e non all’ora di punta, assicurando che un’insalata e una fetta di melone si lasciano preferire alla parmigiana di melanzane, alla faraona con le patate, al porceddu arrosto e alla frittata con i lampascioni.

I gatti continuano a spanciare sui pavimenti e a sdraiarsi improvvisamente, colti da raptus, al sole, forse per ribellione alle prescrizioni del TG2. Il caldo impedisce ogni attività sessuale, ma ci si può consolare facendo l’inventario deli resoconti della stampa sui gusti sessuali di personaggi di primissimo piano, famosi quanto Aristide Marchiafava nel pianerottolo del suo palazzo, salvo che nell’enclave degli aficionados di Famosi & dintorni, ognidì su Telemerda.

Incuranti della canicola, ristoratori e albergatori continuano nella disperata ricerca di personale, qualificato o meno, disposto a sottoporsi al rito alchemico della transustanzazione del salario. Sembra che i più disposti al sacrificio abbiano accettato di essere pagati con la riproduzione perfetta di una gavetta della prima guerra mondiale (vedi fac simile in foto)

I sindacati approvano l’intento formativo dei datori di lavoro, mentre il ministro del lavoro applaude all’iniziativa che rende finalmente concreta la gavetta: basta con la retorica, riempiamo le ciotole di sana minestra sudata col lavoro onesto e disinteressato, certi che il sacrificio di oggi porterà al successo di domani.Solo che domani farà di nuovo 40 gradi, s’incendieranno i boschi, si scioglieranno i ghiacciai e si creerà un nuovo ecosistema, simile all’inferno, solo un po’ più esteso. Settantamila volte sette s’accenderanno pire che abbruceranno tutti i percettori di reddito di cittadinanza, i facitori di pizze margherite vendute a meno di 8 euro, i gai, gli abortisti, i buonisti amici degli immigrati, i putiniani, i filoucraini e i curdi, per i quali si allestirà una pira esclusiva sulle rovine di Troia, almeno quelle che Bill Gates, travestito da Schliemann, indicò come tali.Tra un paio di giorni, dicono, rinfrescherà: giusto un paio di gradi, l’ideale per un ghiacciolo Marmolada.

Roma (ancora)

Er Coloseo

Cari amici, sarebbe stato facile usare una delle tante immagini, vecchie e nuove, che parlano di incendi, monnezza, cinghiali, inondazioni, mafie, e raccontano gabbiani che straziano ratti, traffico fuori controllo, e tutta quella roba di cui si deve leggere tutti i giorni.

Ho anche rovistato su Google, rendendomi conto della stratificazione di certe immagini: la città è in queste condizioni da anni e tutto fa meno che migliorare. Tutti i politici che l’hanno amministrata si sono tirati in faccia, uno contro l’altro, la situazione, senza riuscire a fermare questa spirale di declino, per giunta strumentalizzando lo strumentalizzabile.

Tutti hanno accusato gli altri, finendo poi a loro volta nel girone infernale degli accusati. Adesso tocca a Gualtieri, ma prima di lui è toccato a Raggi, e a Marino, appiedato dal suo stesso partito, e Alemanno, eccetera.

Chi vive a Roma da tempo sa. Per esempio che qualunque Sindaco è disarmato di fronte alle municipalizzate, che non si governano. Disarmati e incapaci, il passo è breve e il legame viaggia: da una parte sanno di non poter riformare niente, dall’altra sanno che il consenso galoppa su tutte le piste percorribili, e che certi centri di potere a Roma fanno la differenza.

I romani le hanno provate tutte, consegnandosi a larga maggioranza a questo e a quello, ma niente. La città sprofonda nell’incuria e nei disservizi e dà fiato alle trombe di chi inneggia al perduto decoro, che non può mai essere punto d’arrivo per una città dell’importanza di Roma. Il decoro è il minimo sindacale. La partenza.

Quello che appuzza Roma, che la sfiata, che la azzanna al collo e la dilania, è la fine del bene comune, che è una malattia diffusa ovunque, sampietrino per sampietrino, che ammorba i cittadini, ma soprattutto chi di loro è chiamato a dirigere, amministrare, governare.

La sporcizia, il degrado, il caldo, gli incendi, il livello di vita che precipita sono la conseguenza. Che il livello di vita a Roma sia crollato possiamo testimoniarlo noi, che da Roma siamo andati via. Nel mio caso non è stata una diserzione, piuttosto una migrazione legata ai casi della vita.

Però Roma non la riconosco, o meglio ne vedo la degenerazione che parte direttamente dall’aspetto e dall’atteggiamento delle persone, sempre disincantato e dissacratore, ma con una luce opaca negli occhi, una vena di risentimento, una cappa di disperazione nascosta dietro a un ghigno sbruffone e a una finta allegria da baldoria serale, un vestituccio, un’apericena, una ricettina gourmet per darsi un tono, un vinello, un tatuaggio, un cagnaccio al guinzaglio o che.

Non si rialza mica, così, la città. Non è la pipinara che s’ammucchia nei ristorantini e bistrot (che palle sti bistrot) che nascono come funghi che la riscatterà.

C’è tutta un’economia velleitaria, quattro palanche rimediate lavorando come schiavi per far fare i soldi a non si sa chi, soldi che se ne vanno sempre altrove, che servono ad altri, che si polarizzano nelle tasche di pochi. Cinici, tanti. Così gli incendi, così le troppe tattiche che incrociano la politica e gli interessi in ballo, che diventano in comune, e che diventano, infine, in Comune.

Inutile passare in rassegna i mandati fallimentari dei sindaci romani, tutti li conoscono, a grandi linee. Quello che sconcerta è che, in una situazione in cancrena da una ventina d’anni, non ci sia un sindaco, uno, che messo all’angolo da un’emergenza qualunque, uno dei mille allagamenti, una delle millemila buche, una delle mille emergenze rifiuti, e sanitarie, e scandalose dei trasporti, non ce n’è stato uno che abbia avuto il coraggio, la chiarezza, l’onestà, la follia di prendere la parola e spiegare il perché di questa situazione.

Con parole semplici, che siano chiare a tutti.

Ci ha provato un po’ con un libro postumo Marino, che il dono della chiarezza non ce l’ha mai avuto davvero, e nemmeno quello della simpatia.

Io da un romano che si prende la responsabilità del Campidoglio mi aspetto, prima di tutto, che ci tenga al bene di Roma. Lo so, è un concetto ingenuo, elementare, forse stupido. Forse troppo semplice.

Ma la qualità della vita è un concetto semplice, e Roma se l’è dimenticato da un pezzo: sopravvive, in condizioni sempre peggiori. Che significa, poi, morire, per i cittadini, come muore la città, perché d’aria, d’acqua, di cuore e di senso di comunità una città si nutre.

E senza nutrimento muore.