La settimana scorsa giravo di mattina per Perugia, andando avanti e indietro per Corso Vannucci. Ho comprato il giornale davanti al Palazzo dei Priori e mi sono seduto al sole a leggerlo. Si ragionava di Legge elettorale, mi pare (sai che novità). Passava di lì una signora sorridente e ben vestita che si è fermata a propormi di acquistare certe sue stampe originali, nelle quali, a uno sguardo fugace, dominava decisamente il giallo. Le ho detto sorridendo di non essere interessato e lei mi ha salutato e se n’è andata.
Dopo qualche minuto è passato un ragazzo con dei libri autoprodotti. Voleva vendermene uno ma l’avevo già acquistato l’anno scorso. Ho declinato l’offerta.
In una panchina di fronte al Palazzo un simpatico signore con la barba, che a Perugia si trova sempre, ha tirato fuori la sua chitarra a 12 corde, l’ha accordata e ha intonato il suo cavallo di battaglia, l’Italiano di Toto Cutugno, per poi continuare nel suo buffo concertino, complice un difetto di pronuncia, alternato a qualche breve chiacchierata con passanti, freaks, donatori di monetine e compagni di stazionamento mattutino. C’era proprio un bel sole e si stava bene.
Ho risalito pigramente il Corso e ho incrociato di nuovo il ragazzo dei libri. Me li ha riproposti. Ho ri-declinato. Sono sceso poi su Via Baglioni. Risalendo un vicoletto che riportava sul Corso mi si è avvicinata una signora anziana e ben vestita.
Aveva degli occhi… stanchi. L’aria tra lo spaventato e l’implorante. Il fondo degli occhi era acquoso, l’espressione un po’ assente. Mi ha chiesto in un soffio se avevo qualcosa da darle per mangiare. Le ho dato alcune monete. Ho pensato che poteva essere mia madre.
Sono tornato in su e a Piazza IV novembre c’era un tizio che suonava il violino benissimo. Sono stato lì ad ascoltarlo, mentre un gruppo di vecchini tedeschi un po’ scalcagnati, forse exDDR, si girava guardandosi intorno come fanno i turisti in gruppo, con fare gallinesco. Perso completamente il senso della propria presenza nello spazio, rivendicato il diritto a stare accozzati compatti a testuggine, intorno alla guida che tiene sollevato il segno distintivo. Un ombrello, un qualcosa di colorato. L’espressione-tipo: ho pagato, ho diritto a stare qua, lo spazio è mio, era compreso nel pacchetto dell’agenzia di viaggi. Ormai faceva proprio caldo. Ho dato una moneta al violinista.
Ho risalito di nuovo il Corso, ri-ri-rifiutato il libro del giovane scrittore, meno fisionomista di me. Ci fossimo incontrati cento volte sarebbe stato lo stesso. Un signore, più avanti, con un cappellino, suonava non so che strumento, anche bene. Niente moneta.
Due scamuffi, un uomo e una donna, mi assaltano, poi, mentre prendo il caffè seduto a Piazza Italia. Lui è vestito di bianco e truccato in viso come volesse scimmiottare i mimi che stanno ferrrrrrrmi agli angoli delle strade. Solo che non sta mica fermo, anzi, e chiacchiera pure. Lei è vestita da pagliaccio, giallo e rosso. Lui chiede una moneta mentre sto maneggiando il resto del caffè. Sfinito, lo accontento. Arriva lei e porge a sua volta la mano. Le chiedo di farsi dare la metà dal suo socio, visto che girano insieme.
Nel frattempo passa un’altra signora, macilenta, scura scura, che chiede qualche soldino proferendo generiche benedizioni, invocando l’intercessione di diverse divinità. No, mi dispiace. Guardo alla mia destra, in fondo si vede un bel panorama. C’è lì vicino un ragazzo con un cagnetto bianco che s’intrattiene amabilmente con altre due persone. Chiacchierano, ridono, si salutano calorosamente. Lui a un certo punto fa: “ok, ragazzi, ora scappo, che devo lavorare”. Fa per allontanarsi, col cane al guinzaglio, ma si ferma, si gira e mi chiede qualche spiccio per mangiare.
Era quello il lavoro, fatto con la doverosa professionalità.
5 euro la spesa totale stimata. Con colazione e giornale fanno 10.
Una bella mattinata di sole. Ma forse a Roma qualcuno, a questo punto, metterebbe l’accento sulla o.