Il mendicante professionale

La settimana scorsa giravo di mattina per Perugia, andando avanti e indietro per Corso Vannucci. Ho comprato il giornale davanti al Palazzo dei Priori e mi sono seduto al sole a leggerlo. Si ragionava di Legge elettorale, mi pare (sai che novità). Passava di lì una signora sorridente e ben vestita che si è fermata a propormi di acquistare certe sue stampe originali, nelle quali, a uno sguardo fugace, dominava decisamente il giallo. Le ho detto sorridendo di non essere interessato e lei mi ha salutato e se n’è andata.

Dopo qualche minuto è passato un ragazzo con dei libri autoprodotti. Voleva vendermene uno ma l’avevo già acquistato l’anno scorso. Ho declinato l’offerta.
In una panchina di fronte al Palazzo un simpatico signore con la barba, che a Perugia si trova sempre, ha tirato fuori la sua chitarra a 12 corde, l’ha accordata e ha intonato il suo cavallo di battaglia, l’Italiano di Toto Cutugno, per poi continuare nel suo buffo concertino, complice un difetto di pronuncia, alternato a qualche breve chiacchierata con passanti, freaks, donatori di monetine e compagni di stazionamento mattutino. C’era proprio un bel sole e si stava bene.

Ho risalito pigramente il Corso e ho incrociato di nuovo il ragazzo dei libri. Me li ha riproposti. Ho ri-declinato. Sono sceso poi su Via Baglioni. Risalendo un vicoletto che riportava sul Corso mi si è avvicinata una signora anziana e ben vestita.
Aveva degli occhi… stanchi. L’aria tra lo spaventato e l’implorante. Il fondo degli occhi era acquoso, l’espressione un po’ assente. Mi ha chiesto in un soffio se avevo qualcosa da darle per mangiare. Le ho dato alcune monete. Ho pensato che poteva essere mia madre.

Sono tornato in su e a Piazza IV novembre c’era un tizio che suonava il violino benissimo. Sono stato lì ad ascoltarlo, mentre un gruppo di vecchini tedeschi un po’ scalcagnati, forse exDDR, si girava guardandosi intorno come fanno i turisti in gruppo, con fare gallinesco. Perso completamente il senso della propria presenza nello spazio, rivendicato il diritto a stare accozzati compatti a testuggine, intorno alla guida che tiene sollevato il segno distintivo. Un ombrello, un qualcosa di colorato. L’espressione-tipo: ho pagato, ho diritto a stare qua, lo spazio è mio, era compreso nel pacchetto dell’agenzia di viaggi. Ormai faceva proprio caldo. Ho dato una moneta al violinista.

Ho risalito di nuovo il Corso, ri-ri-rifiutato il libro del giovane scrittore, meno fisionomista di me. Ci fossimo incontrati cento volte sarebbe stato lo stesso. Un signore, più avanti, con un cappellino, suonava non so che strumento, anche bene. Niente moneta.

Due scamuffi, un uomo e una donna, mi assaltano, poi, mentre prendo il caffè seduto a Piazza Italia. Lui è vestito di bianco e truccato in viso come volesse scimmiottare i mimi che stanno ferrrrrrrmi agli angoli delle strade. Solo che non sta mica fermo, anzi, e chiacchiera pure. Lei è vestita da pagliaccio, giallo e rosso. Lui chiede una moneta mentre sto maneggiando il resto del caffè. Sfinito, lo accontento. Arriva lei e porge a sua volta la mano. Le chiedo di farsi dare la metà dal suo socio, visto che girano insieme.

Nel frattempo passa un’altra signora, macilenta, scura scura, che chiede qualche soldino proferendo generiche benedizioni, invocando l’intercessione di diverse divinità. No, mi dispiace. Guardo alla mia destra, in fondo si vede un bel panorama. C’è lì vicino un ragazzo con un cagnetto bianco che s’intrattiene amabilmente con altre due persone. Chiacchierano, ridono, si salutano calorosamente. Lui a un certo punto fa: “ok, ragazzi, ora scappo, che devo lavorare”. Fa per allontanarsi, col cane al guinzaglio, ma si ferma, si gira e mi chiede qualche spiccio per mangiare.

Era quello il lavoro, fatto con la doverosa professionalità.

5 euro la spesa totale stimata. Con colazione e giornale fanno 10.
Una bella mattinata di sole. Ma forse a Roma qualcuno, a questo punto, metterebbe l’accento sulla o.

Il galbanino

galbanino-2Vedi, uno parte con la storia della chiavetta e non si sa più dove arriva.
Si ragionava di cose del passato: parliamo di formaggio. Caciotte, pecorini e simili avevano, qualche decennio fa, un assortimento relativo. Ce n’erano diversi, non numerosi come oggi, che coprivano il solito range dell’offerta caciara: il parmigiano, il grana, il pecorino, il gorgonzola, la fontina, il provolone, il caciocavallo, i tomini e poco altro. C’era la caciotta locale, mista, fresca, poco stagionata, che insidiava da lontano il prestigio del Bel Paese, formaggio di marca Galbani, primaria azienda del settore.

E c’era, dello stesso produttore, il galbanino. Trattavasi e trattasi tutt’ora di siluro di cacio dal gusto abbastanza neutro, ricoperto da una cera con la quale era simpatico giocare facendo palline e figurine di vario tipo, anche perché non la si poteva mangiare. Veniva usato per farcire panini e per comporre piatti filanti, in alternativa alle sottilette Kraft.

Tutti quanti ne facevano uso, insieme all’ottima crescenza dello stesso Galbani, che aveva costruito uno standard di sapore poi violato selvaggiamente dagli stracchini acrobatici e squacqueroni di Nonno Nanni. Mi sono alimentato furiosamente di galbanini e stracchini come questi, il che un po’ spiega alcune mie caratteristiche, ma non divaghiamo.

Il simpatico siluro rimane ancora un punto di riferimento della cucina italiana: latte, sale e caglio, non c’è trucco e non c’è inganno. Però, con tutto il ben di dio che ci sarebbe da comprare, dico io, proprio il siluro? Non ci sfizia, che so, un pecorino o un caprino artigianale? L’offerta di formaggi è cresciuta infinitamente, ci sono produttori ovunque, cose sfiziose, erborinate, muffate, grottate, importate, ce n’è per tutti i gusti. Perché continuare col siluro incerato, o con la sottiletta che fonde e fila? Esistono orizzonti tutti da esplorare, sui banchi dei mercati, nelle roulotte parcheggiate vicino a dove pascolano le pecore, nei luoghi più impensati e impervi. Sapori provenienti da terre remote, prodotti con le muffe più esotiche, cose da spalmare che voi umani eccetera, roba che rende un risotto buono e irripetibile, un panino sfizioso, un’insalata ghiotta.

E noi niente, Galbanino.
L’abitudine, lo so, la cosa che risolve al volo, avete ragione, accidenti alle parodi che ci hanno scaraventato nel limbo della coazione a ripetere l’acquisto del prodotto che ci fa ricorrere l’azione culinaria come criceti nella ruota.

La chiavetta

Avevamo tutte queste chiavette per giocarci, come quelle che si vedono nella foto in basso. Sulla chiave c’era una tacca, ci infilavi dentro una linguetta sporgente e aprivi la scatola di carne Simmenthal girandole intorno. Il contenuto era un cilindretto di manzo o chi per lui, intrappolato dentro a un po’ di gelatina, poca per essere tremula ma affascinante, almeno per i bambini. Consistenza gelatinosa, trasparenza accattivante.
A fianco del cilindro qualche volta c’era una placca di grasso. Bianco.

Tutti la compravano, la pubblicità ci martellava, si faceva insieme con i pomodori e con l’insalata, era fresca di frigo e pareva buona. Chissà cosa ci mettevano, a vedere il sito del produttore oggi c’è ogni sorta di prelibatezza ma mi permetterei un po’ di scetticismo.

La chiavetta era fantastica, si diceva la usassero per spadinare le macchine e fregargli lo stereo 8 (o anche portarsi via tutto). Le scatole erano di latta e avevano quel formato cilindrico, piccole o grosse, che i grandi riciclavano per farci dei contenitori da usare per tenerci dentro i chiodi, le viti, i fermagli, cose così.

La carne Montana invece era una specie di patè, rosa, senza gelatina ma anche lei con la chiavetta. La potevi fare a fette, diceva Carosello, ed era anche più buona, con il suo misterioso contenuto, una specie di terrina di chissàche, di ‘nsaimaichetemagni.

Il barattolo della carne Montana era meno pratico, essendo più grosso. Per l’uso hackerato era preferibile il magnifico parallelepipedo con i bordi smussati dell’olio Sasso, vero must per i bricoleur di tutto il mondo. Mio nonno ci teneva i bollettoni lunghi che piantava nei tavolini che costruiva, nell’altalena da mettere nell’orto.

Anche le sardine avevano la chiavetta ma se ne mangiavano meno. Ne ho mangiate certe biologiche l’altro giorno ma non so se avessero la chiavetta, immagino di no. L’attrezzo è stato sostituito dalla moderna apertura a strappo, che non lascia residui riciclabili con la fantasia. Sorte che toccava, oltre alle chiavette, anche alle lattine, oggi tristemente ribattezzate tappi corona, inguattate nei pertugi dei supermercati che le mettono a disposizione di chi ancora si fa la passata in casa, o magari gli piglia il ghiribizzo di autoprodursi la birra.

L’apriscatole piccolo da scatoletta di tonno, invece, quello piatto con rilevata una specie di piccola pinna di squalo, era off-limits perché ti ci potevi tagliare. Ti tagliavi più facile col coperchio della scatola, se non lo piegavi prima che finisse il giro: affondava nell’olio che diventava micidiale, le dita scivolavano sulla lamiera tagliente, il sangue metteva fine all’avventura. Ma con l’apriscatole universale non c’era partita, le chiavette erano un’altra storia.

Anni fa a Lisbona sono capitato in uno STREPITOSO negozio di conserve, aveva scatolette BELLISSIME, di tutti i colori. Comprai un meraviglioso tonno con la scatola gialla come souvenir. C’è un locale a Siena che fa la Simmenthal del Chianti. Si chiama Pretto, il locale, la carne è buonissima e sembra davvero un pezzo (molto più buono) di quella che compravamo in scatola. Se ci capitate assaggiatela. Chissà quanta gente tiene ancora un barattoletto di Simmenthal in dispensa. Io non ne mangio da decenni. Domani la compro, chissà se ha ancora la chiavetta.

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La guida giusta

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Quando arriva il momento della celebrazione di questi due grandi italiani ci rendiamo conto di avere ancora valori su cui fondare il futuro, domande angosciose a cui occorre dare finalmente risposta, obiettivi da porci per essere all’altezza di chi ha sacrificato la propria esistenza per il bene del nostro Paese, e quindi per il nostro bene. E viene da chiedersi come si possa vendere il proprio mandato politico per un orologio di marca, come sia possibile che la faccia di quattro squallidoni che non hanno mai lavorato in vita loro si possa proporre come la faccia nuova del Paese, e come il cinismo, la disillusione, la mancanza di solidarietà di molti abbiano finito per prevalere sui sentimenti sinceri della silenziosa gente per bene di cui questo Paese continua a essere pieno.

Sulla groppa della Bestia

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– Da un po’ di tempo in qua a Colfiorito si vedono un sacco di animali nuovi, anche a due zampe – fa il tipo seduto al bar, mentre beve la sua birretta.
– Basta distinguere gli uomini dalle bestie – si gira e gli risponde la signora che al banco sta pranzando con un cappuccino.
Faccio finta di non esistere e la signora del bar mi fa:
-Di dov’è lei? Perché mi sembra di conoscerlo bene -.

E’ la prima volta in vita mia che metto piede a Colfiorito, un mucchio di case su un piano tutto colorato di coltivazioni. Lenticchia, farro, ceci, fagioli, la ricchezza del posto è questa, prodotti quasi della stessa qualità di quelli di Castelluccio, che sta trenta chilometri più giù ma non ci si può arrivare. Approfitto di un soggiorno prolungato tra Perugia e Bevagna per fare un giro in zone che non conosco, se non di nome. E percorro una bellissima strada che mi porta, sulle ginocchia della Bestia, prima a Pieve Torina e poi a Visso, tra crepe e crolli, centri transennati e desertici, piccoli esercizi rimessi in piedi con soluzioni di fortuna, tra prefabbricati, furgoncini, casette di legno e baracche rimediate. La strada verso Norcia è chiusa, ancora ingombra dal giorno del terremoto, col fiume che aveva invaso la carreggiata. Per andare di là devi tornare indietro e passare dalla superstrada, prima di Spoleto, un giro assurdo. Anche questo è parte della paralisi da terremoto che attanaglia queste zone peggio dei lutti e della distruzione.

Di questo parlo con la signora che a Visso mi prepara un panino col ciauscolo, squisito, 2 euro e 50 perché il disastro ci rende ancora più onesti di prima. Lei mi dice che li ha salvati la botta di preavviso arrivata alle 7 di mattina e che quando è arrivata quella grossa stava in piazza e credeva che la terra si aprisse. In pochi hanno rimesso in piedi una parvenza di attività: lei fa panini e vende salumi, accanto c’è la baracca della farmacia, prima ancora un furgone vende qualche piantina. Ma in paese è tutto chiuso, quelli che vendono abbigliamento non hanno un posto dove riaprire. La ricostruzione morde il freno persino come prospettiva, visto che oltre al resto si parla pure di rischio idrogeologico. Per un paese che sta in piedi da mille anni è una bella novità. Mi stringe forte la mano, la signora, e riparto, col solito macigno sullo stomaco che ogni volta si riaffaccia, sempre uguale, alla vista dello scempio fatto dal terremoto. Lungo la strada il campionario di danni è il più ampio possibile. Palazzi sventrati, crepati a croce, crollati e sminuzzati, elettrodomestici accartocciati tra le macerie, pezzi di legno, strani incarti fatti con lo scotch. Il bivio a destra arriva liberatorio, sterzo d’istinto e infilo la strada che sale verso la montagna per liberarmi di quel peso.

I Sibillini ci sovrastano, in cima c’è la neve e la strada per Fiastra è bella e difficile, piena di breccole smosse, crepe, frane. Davanti ai monti azzurri verso nord c’è un temporale che fa come una colonna scura. Impressionante. Superato il passo si scende, verso il lago. La segnaletica ricorda che qua c’è un parco. L’unico bipede che vedo sta lavorando sulla facciata di una chiesa. Mi giro e torno indietro, verso la Foligno-Civitanova, la strada del Chienti, che porterebbe a Camerino. Ma tiro dritto. Ci tornerò un’altra volta.

Perugia, o cara

18588991_10212969496541717_3520044167956461183_oNon sei madre, come Roma, né compagna, come Siena, e nemmeno nonna, come Amatrice, ma mi piaci. Mi piace fare le vasche avanti e indré su Corso Vannucci e mangiare la torta al testo farcita col ciavuscolo. Mi piace sentire i perugini che parlano e rifargli il verso. Mi piacciono le cose che organizzano i ragazzi di Emergenze intorno all’Edicola 518, che avercene un gruppo così in ogni città questo Paese avrebbe risolto qualche problema. Mi piace passare e ripassare sotto l’Arco Etrusco con quei fianchi possenti e scivolare avanti e indietro sul Mini Metro silenzioso, prendere il caffè al Bar in piazza molestato dai questuanti che si vestono da mimi ma sono raccattati, mimare non mimano, anzi, vengono incontro e chiedono spicci, con lei che si veste da pagliaccio. Giallorosso. Mi piace il tipo che si mette sulla panchina con la 12 corde e attacca “LASCIATEMI CANTAREEE” poi smette e si mette a chiacchiera con qualche svitatone, cinque minuti e poi si riprende. Mi piace il cagnolino che gioca con la palla da tennis sulle scalette in piazza, davanti alla fontana. Mi piacciono colori e accenti mischiati di studenti fuori sede e stranieri, le ragazze belle, la gente sorridente. Mi piace ricordare che in un pomeriggio di maggio del 2000 piovve tantissimo, ma per Alessandro Calori c’era il sole, come a Roma. Mi piace il fatto che ogni volta ci fai stare bene e ci accogli tra le tue braccia amiche. E torno sempre volentieri.

La classe operaia non c’è più. Ma dov’è finita?

Dice l’Istat che la classe operaia non esiste più. Ma dov’è andata? Non si è spalmata mica in quelle nuove classi sociali su cui ragiona l’Istituto. Può anche darsi, cioè, ma non ha senso liquidare una storia lunga secoli in una fredda riclassificazione basata sul reddito e sulla composizione del nucleo familiare.

E’ sparita, la classe operaia, ma senza andare in paradiso, come auspicava Elio Petri. Semmai è scivolata nell’inferno della disoccupazione, delle fabbriche chiuse e delocalizzate, dell’economia che di reale ha sempre meno, della rincorsa affannosa a un reddito che non sia da welfare. Ché la Cassa Integrazione ottunde i sensi e uccide, la disoccupazione indennizzata è il conto alla rovescia verso l’irrilevanza e il poco lavoro che si trova, sgomitando con gli immigrati, è dentro i toboga infernali dei corrieri, nelle attività stagionali, in tutte quelle proposte lungorario, paga da negrieri e nessuna qualificazione che rappresentano l’occupazione residua per chi è stato espulso dal mercato del lavoro.

La scomparsa del lavoro ha mortificato i lavoratori, costretti a fare passi indietro da gigante sul fronte dei diritti, in deroga a orario, sicurezza e dignità. Perdendo ogni rilevanza, non avendo voce, non trovando rappresentanza politica. Perdendo, soprattutto, reddito, garanzie, assistenza, possibilità di far studiare i figli, di curarsi e di condurre un’esistenza dignitosa.

Il tutto è servito a far più ricchi alcuni ricchi, che nemmeno loro, in gran parte, abitano qui. I ricchi veri tirano le fila dalle loro torri d’avorio, anzi d’oro, e sorvegliano lo scorrere di immani flussi di denaro verso tasche sempre meno numerose.

Hanno redistribuito qualcosa alimentando il canale delle merci rese disponibili a buon mercato di cui ci hanno riempito, prendendosi in cambio tutto quello che avevamo guadagnato in decenni di lotte e di progresso sociale che avevano ottenuto una più equa distribuzione del reddito e un diffuso benessere, in cui si poteva sperare di crescere e di far crescere i propri figli. Oggi non rimane niente, se non quello che riesce a fare qualche nicchia virtuosa di imprenditori rimasta attiva qua e là, nascosta in mezzo all’economia predona fatta da disperati e malavitosi che si è presa la scena, inutile e inerte la politica, lontani gli orizzonti della qualità di cui si era alimentato il boom economico.

C’è rimasto solo il debito pubblico, in attesa che a qualcuno venga in mente di ridurlo facendolo pagare a noi. Serve un cambiamento ORA, perché il lavoro non può essersi ridotto allo sbattersi quotidiano per raccattare una mancia da spendersi in mutande a basso costo, cheeseburger e bevute di pessima qualità fatte per dimenticare.

I politici che litigano per il potere, quelli che cercano di far finta che la colpa sia di quattro disperati in fuga dalla guerra, quelli che sperano di passare alla cassa sull’onda lunga dei populismi e degli slogan di Trump si mettano in testa che non c’è più niente da raschiare per molti e che stagnazione, crescita zero, deflazione, disoccupazione, perdita del potere d’acquisto, blocco della mobilità sociale stanno producendo le condizioni per un futuro buio e pericoloso. Una tigre che non possono illudersi di cavalcare.

La mia bellissima montagna

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Domenica scorsa ho fatto un salto ad Amatrice per un incontro con i professionisti che ci devono dare una mano per la ricostruzione della casa, inagibile ma resistente. Una giornata estiva, temperatura ideale, natura strepitosa, ma il più del tempo è passato con le zampe sotto al tavolo, prima a parlare dell’ingarbugliato iter per accedere alla ricostruzione finanziata dallo Stato, poi per la (logica) coda gastronomica, consumatasi in un mezzo scatrafosso nei dintorni di Posta, che mi ha fatto interrogare sull’insensatezza umana: casa è Amatrice, Posta ci è simpatica ed è in buone condizioni ma gli Stracci di Antrodoco, con tutto il rispetto, e buoni, eh, magnateveli voi.
E imparate a non far indurire lo guanciale…

Alla fine, salutati parenti e professionisti, ho fatto un salto su da me.
C’era un silenzio definitivo.
Anche all’Amatrice, dove c’era poca gente in giro che parlava piano. Ma all’Aleggia no. Ero solo e ho fatto un giretto per ascoltare il vento che faceva frusciare le foglie.
Poi ho lavato la macchina con l’acqua della fontana e poi sono ripartito, ma solo perché si faceva tardi, portandomi via una bottiglia che ho sorseggiato tornando a casa. Pura acqua di fonte fresca e limpida.

Per strada, andando verso l’Umbria, mi sono fermato a fotografare la parte dietro della montagna del mio paese, che chiamiamo la montagna nostra.
La foto in alto l’ho scattata alla Vena Gentile (quella cima conica in mezzo), un posto meraviglioso, il mio preferito. Quasi segreto. Chiunque dovrebbe andarci, una volta, per rimettersi in sintonia col mondo.

Quello qua sotto, invece, è il Monte Prato (quello a sinistra), che qualcuno chiama impropriamente Monte del Leone, e ancora le Prata o la Crocetta, riferendosi a una croce che c’è in cima. Non si vede il punto più alto, che è il Monte Pozzoni (1900 metri), detto Li Pozzoni, che si intuisce nella foto su in alto.
Quello però è “straniero”, perché sovrasta Roccasalli.
Adoravo, arrivato in cima al Monte Prato per la Via delle Revote, correre sulla strada e sui prati in falso piano che da lì portano ai Pozzoni. Ci sono dei pantani, che chiamiamo pescoie, poco sotto strada, e quando sali in cima correndo ti sembra sempre di stare per arrivare ma è un’illusione, e l’altura e la fatica ti fanno salire il cuore in gola, mentre il vento ti asciuga (gela) il sudore addosso. E ti senti tutt’uno con la natura stupenda e incontaminata che hai intorno, quella stessa natura severa che i tuoi antenati hanno dovuto domare per sopravvivere.
Sono montagne da prendere con le molle. Se si muovono sei finito.
Ma sono bellissime. Sono le montagne nostre.

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Il problema della problematica

Luciano Bianciardi era un genio. Scriveva cose irresistibili, per ironia, brillantezza, capacità di anticipare i tempi. Una lettura gustosa come poche. Scrisse un pezzo per l’Unità nel ’56, in punta di penna, con cui pigliava in giro le manie degli intellettuali. Sembra scritto oggi. Ne cito un brano assolutamente irresistibile. Ci sono dentro almeno 5 frasi con cui farsi una maglietta: per me “Io c’ero, quella volta”.
“Ogni volta che si vuole intraprendere un lavoro serio, per esempio fondare una rivista culturale, occorre porsi la problematica. Io c’ero, quella volta, e ricordo molto bene tutta quella gente preparata: cominciarono proprio ponendosi il problema fondamentale, quello della problematica. Qualcuno si alzò a dire che il problema primo era quello della tematica, ma fu opportunamente messo a tacere. Prima la problematica, poi la tematica. Che tematica sarebbe quella che non discendesse (o non emergesse) da una problematica?
Ci vollero tre mesi, e finalmente la problematica era pronta: ricavarne una tematica fu abbastanza facile. Su quella tematica provvedemmo subito ad aprire un dibattito. Ho imparato allora quanto sia importante aprire un dibattito, il più possibile ampio, sui problemi che interessano. Dal dibattito emersero alcune indicazioni interessanti, e la rivista s’impegnò a lavorare nella direzione indicata”.
(Luciano Bianciardi, Il problema, l’Unità del 28/3/56, da Chiese Escatollo e nessuno raddoppiò, Baldini & Castoldi)

Rocca Cencia, i rom e il disastro dei poveri

Cliccando questo link si può vedere un filmato tratto da Servizio Pubblico che spiega benissimo, nel breve volgere di 28 minuti, la situazione in cui ci troviamo in questo preciso istante, nessuno escluso.

Nel filmato si vede la situazione ambientale che c’è in prossimità del Polo di trattamento dei rifiuti di Rocca Cencia, a Roma. Ci sono gli abitanti delle case popolari che si trovano in zona, che raccontano la loro felicità per l’assegnazione degli alloggi e la disperazione seguita alla degenerazione dell’ambiente circostante.

C’è un mare d’immondizia che circonda l’impianto, che pare di capire venga scaricata abusivamente nel quadro di malaffare che si riconduce a Mafia Capitale, e c’è un campo nomadi, dove si bruciano rifiuti e si producono fumi tossici, si vive tra odori mefitici, topi e immondizia ammucchiata di altra origine.

E’ molto importante il momento in cui vengono a contatto gli abitanti delle case popolari con i rom: il dialogo è teso, la disponibilità a comunicare ci sarebbe ma non si riesce a superare l’ostilità di fondo.

Si toccano così con mano gli effetti nefasti dell’infiltrazione criminale fin nei gangli più profondi della società. Se ne vedono i confini, perché i rom sono sempre stati, come dicevo ieri, presenti a Roma e hanno sempre rappresentato il fanalino di coda della società, i marginali per definizione, quelli che non meritano nemmeno la compassione dovuta agli abitanti delle baracche.

Nel video di Servizio Pubblico si percepisce la distanza tra ultimi e stra-ultimi. In realtà manca ancora un pezzo: non si vedono gli immigrati. E un altro ancora: non sono presenti gli immigrati invisibili, quelli che si nascondono alla vista, che trovano ripari di fortuna la notte, che transitano verso la loro destinazione e non vogliono essere visti.

Ho parlato ieri di integrazione necessaria. I rom dei campi sono percepiti come parassiti irrecuperabili, ma sono esseri umani, e a meno di non adottare le soluzioni pensate da Hitler, dobbiamo come società fare tutto quello che è in nostro potere per includerli.

Loro e tutti quelli che nella scala sociale stanno al di sotto della linea della povertà. Fin dai tempi del fascismo la ricetta è stata semplice: rimuovere dalla vista lo sconcio dei poveri. Questa è diventata, oggi, una ricetta anche politica, se è vero che il PD difende i cittadini già tutelati e che i populisti e i neonazifascisti sembrano trovare consenso solo alimentando guerre tra diseredati, o guerre ai poveri e non alla miseria.

L’integrazione è necessaria perché siamo una collettività e dobbiamo dare a tutti l’opportunità di accedere a una vita dignitosa, anche a chi sta ai margini per scelta o per incapacità. I campi rom non dovrebbero esistere, o dovrebbero essere puliti, derattizzati, tenuti coinvolgendo chi ci sta dentro o facendolo per loro. Lo stesso vale per tutti i luoghi della collettività. Quando si fanno cose turpi in nome di un concetto sfuggente come quello del “decoro” si perde di vista il fatto, logico, che per primi gli esseri umani vanno trattati decorosamente.

Questo non significa che il privato cittadino debba amare i rom o semplicemente apprezzarli, non significa che gli effetti dei loro reati contro il patrimonio siano negabili, anche se non sono diversi da truffe e furti commessi da non-rom. Certe condizioni vanno create dalla politica, che a oggi è latitante e ha permesso al malaffare, unico beneficiario della situazione, di proliferare.

Abbiamo un’imprenditoria e una classe dirigente malata, uno Stato che non riesce a fornire i servizi essenziali per colpa di questa situazione, e questo si ripercuote sugli strati più deboli della popolazione, accrescendone la debolezza e lasciandoli alla mercé della criminalità, che può diventare punto di riferimento per la sopravvivenza. In questa situazione le mafie fanno i soldi e si radicano sempre più profondamente nella società, sostituendosi allo Stato assente. La ricerca del consenso viaggia su altri territori, anche perché questa è gente che non ha voce. Però si stanno creando le condizioni per un disastro sociale di proporzioni eccezionali, e le immagini di Rocca Cencia ce lo dimostrano. Ci vuole un cambiamento.

Di fronte a questa situazione il modo di vivere dei rom mi sembra l’ultimo dei nostri problemi, mentre è importante che si mantenga il più elevato possibile il loro standard di vita, proprio perché si tratta di un limite ultimo di demarcazione della nostra società. Che non può permettere, nel 2017, che bambini vivano tra rifiuti e topi, e che ci siano comunità di cittadini alloggiate in case popolari dove la farmacia più vicina è a un’ora di bus, e l’immondizia ti rende la vita impossibile e ti fa ammalare.