se poi scoprono ke i folii non ci sono più

  io Baudolino di Galiaudo de li Aulari con na testa ke somilia un lione alleluja sieno rese Gratie al siniore ke mi perdoni
          a yo face habeo facto il rubamento più grande de la mia vita cio è o preso da uno scrinio del vescovo Oto molti folii ke forse sono cose de la kancel cancelleria imperiale et li o gratati quasi tutti meno ke dove non veniva via et adesso o tanto Pergamino per schriverci quel ke volio cioè la mia chronica anca se non la so scrivere in latino
          se poi scoprono ke i folii non ci sono più ki sa ke cafarnaum viene fuori et pensano ke magari è una Spia  dei vescovi romani ke voliono male all’imperatore federico
          ma forse non li importa a nessuno in chancelleria schrivono tutto anca quando non serve et ki li trova [questi folii] se li infila nel büs del kü non se ne fa negott

The Night They Drove Old Dixie Down

hateful+eight

Una linea di continuità tra Hateful Eight e Django Unchained è la ripresa del racconto del bounty killer, figura leggendaria del west che Tarantino aveva narrato attingendo a piene mani alla retorica dello spaghetti western, l’altra volta. Un’altra è quella della lotta alla schiavitù, da una parte raccontata prima della guerra di secessione, dall’altra nel duro scontro tra il maggiore Warren, nero e nordista, e il vecchio generale Smithers, sudista, finito non si sa come in una baracca del Wyoming, alla ricerca del figlio, morto male per essersi improvvisato a sua volta cacciatore di taglie, ucciso dallo stesso Warren, che nella circostanza sarebbe stato la preda. In quanto ne(g)ro.

Una stanza che conteneva quasi tutta l’America, alla faccia della narrazione leggera che in genere Tarantino si concede, tra una secchiata di sangue/pommarola e una carneficina tra gangster. Ma non è del film che parlo (andatelo a vedere, ne vale sempre la pena), piuttosto della canzone (vedi titolo), che per associazione m’è ritornata in mente: The night they drove old Dixie down, cioè la Band di Robbie Robertson che scrive (1968 circa) un testo sulla guerra di secessione, narrata dalla parte degli sconfitti.

Robertson è un indiano canadese e il testo mira a demolire l’idea della guerra in generale e di quella del Vietnam in particolare, ma la presenza nella Band di Levon Helm, uomo dell’Arkansas, batterista, cantante e parte attiva nella scrittura del pezzo, originò successivamente qualche problema.

Ferite mai rimarginate di una nazione giovane, nata per dominare il mondo seduta sulla cima di una montagna di contraddizioni. Così capita (nella mia testa) che il film inneschi un corto circuito che evoca una storia e una canzone: Dixie, o meglio Dixieland, è il Sud, dal Minstrel Show in poi.

Il nome originerebbe dai dieci dollari scritti in francese (Dix) che circolavano in Louisiana prima della guerra civile. I Dixies, Dixieland, terra di musica:

Oh, I wish I was in the land of cotton,
Old times there are not forgotten,
Look away, look away, look away Dixie Land.
In Dixie Land, where I was born in,
early on one frosty mornin’, 
Look away, look away, look away Dixie Land. 
I wish I was in Dixie, Hooray! Hooray! 
In Dixie Land I’ll take my stand
to live and die in Dixie. 
Away, away, away down south in Dixie. 
Away, away, away down south in Dixie

Questo era l’inno dei confederati (I wish I was in Dixieland), un traditional dal tono vagamente razzista (Old times there are not forgotten si riferisce al tempo della schiavitù che si vuole abolire) che veniva cantato prima della guerra nei minstrel show, dove gli artisti si dipingevano il muso di nero (blackface) per sfottere i neri.

I quali a loro volta rispondevano, temerari, parodiando i bianchi: i “Two real Coons”, Bert Williams e George Walker, cantavano Come-Right-In-sheet-music-cover

“I’m a Bon Bon Buddy, the Chocolate Drop,
The Chocolate Drop,
I’m a Bon Bon Buddy, the Chocolate Drop,
The Chocolate Drop – that’s me 

“I’ve gained no fame, but I’m not ashamed,
I’m satisfied with my nick name
I’m a Bon Bon Buddy, the Chocolate Drop,
The Chocolate Drop – that’s me”.

E s’illudevano: “i bianchi erano talmente occupati a ridere e a divertirsi da non accorgersi che ci facevamo beffe di loro”.

Magra consolazione, tra KKK e segregazione razziale che va avanti ancora, 150 anni dopo, come niente fosse, visto quello che raccontano le cronache.

Robbie Robertson e Levon Helm scrivevano quando tutto ancora sembrava possibile. Non era nata l’ideologia della fine dell’ideologia, gli ideali sembravano avere un senso, la musica, l’amore e la lotta si coniugavano quotidianamente con l’esistenza. Ce lo raccontano Woodstock e tutto quello che c’è stato dopo, compresa la disillusione e l’ottundimento di una generazione stordita dalle droghe e finita dalla melassa mediatica e dall’opulenza reaganiana.

La canzone è qua, in tanti ne hanno fatto cover, la più famosa è di Joan Baez, la cui versione sarebbe alla base del dissidio tra Levon Helm e Robbie Robertson. Helm si è rifiutato di suonarla dopo il famoso concerto d’addio della Band immortalato da The Last Waltz. Sono passati decenni, Helm è anche morto, Robertson è ancora un mito della musica.

Eccola.