Ancora fabbriche e musica: la Factory di Wall of Voodoo e quella di Warren Zevon

Bruce Springsteen, abbiamo visto, tira il suo gran colpo con Factory nel 1978.
Quattro anni dopo Stan Ridgway, genio dello storytelling nello spazio-canzone, tira fuori la sua Factory nel disco-capolavoro degli Wall of Voodoo Call of the west, pietra miliare in ogni discografia alternativa, con testi che somigliano a sceneggiature di b-movies e di western scalcinati, serpenti a sonagli e radio messicane. Continua a leggere Ancora fabbriche e musica: la Factory di Wall of Voodoo e quella di Warren Zevon

Epica springsteeniana: Factory

Prima di diventare un eroe, Bruce Springsteen aveva lavorato sodo alla costruzione dell’epica della classe lavoratrice americana che sarà alla base di quella scena di cantautori nota come Blue Collar Rock, fatta di ballate che raccontavano le storie degli operai e della gente comune che si spaccava la schiena nelle fabbriche, da Detroit a Akron, a Pittsburgh e chissà ancora dove. Una scena condivisa con Bob Seger, soprattutto, e poi con John Cougar, Steve Earle e tante altre voci spesso premiate dal successo nelle radio FM americane, arrivate a noi sia direttamente che attraverso il filtro di qualche cover annacquata (Seger). Continua a leggere Epica springsteeniana: Factory

Porta San Paolo, Roma, 6 luglio 1960: Scrosciano come nacchere gli zoccoli sui sanpietrini

La rivolta contro il governo Tambroni sostenuto dai fascisti del MSI sfocia negli scontri del 6 luglio 1960 a Roma, a Porta San Paolo, già teatro della furiosa battaglia in cui pochi valorosi tentarono di opporsi, dopo l’8 settembre del ’43, all’ingresso a Roma dei nazisti. Un giorno di straordinaria follia, in cui furono caricati i parlamentari del PCi, del PSI, e Radicali, Repubblicani, socialdemocratici che volevano rendere omaggio alla lapide che ricorda i caduti nella Resistenza. Ecco la rievocazione dei fatti di quel giorno, fatta da Aldo Natoli sul Manifesto, ripresa dal blog di Salvatore Lo Leggio. Da leggere.

Scrosciano come nacchere gli zoccoli sui sanpietrini
di Aldo Natoli – “La talpa – il manifesto”, giovedì 5 luglio 1990

Eravamo circa una trentina di deputati dell’opposizione, comunisti e socialisti, venuti a deporre una corona presso la lapide che ricorda i caduti nella resistenza contro i nazisti a Porta S. Paolo nel settembre 1943. La lapide si trova fuori dalla Porta, oltre la Piramide, sulla destra, fitta alla muraglia del Cimitero degli Inglesi.

Noi stavamo stretti nel giardinetto che occupava l’angolo formato dal viale Aventino e da via Marmorata nel confluire sul piazzale. Intorno e dietro c’era folla, non smisurata, se ricordo bene, qualche migliaio di persone, ma vivacissime.

Di fronte, a breve distanza, a presidio degli accessi alla Porta e alla lapide, schiere nutrite di poliziotti, camionette della Celere e tutto il vasto piazzale retrostante fino alla stazione della ferrovia per Ostia era stato sgomberato ed era occupato dalla polizia. Il traffico era stato interrotto. Infatti la manifestazione contro il governo sostenuto dai fascisti era stata vietata. Anche solo l’accesso e l’omaggio (non ricordo che fossero previsti discorsi) a un luogo-memoria della popolazione romana, alle soglie del quartiere rosso, allora, di Testaccio, erano negati. C’era tensione e dietro di noi il brusio inquieto della folla.

A un certo punto decidemmo di muoverci. Il drappello dei deputati, che si tenevano sottobraccio, in prima fila (io mi trovavo fra Ingrao e Lizzadri) apriva la marcia recando la corona, la gente seguiva. Si trattava di attraversare il breve spazio, meno di cento metri, che ci separava dalle schiere dei poliziotti che presidiavano la Porta e i varchi che davano accesso al piazzale retrostante. Il contatto e, forse, lo scontro sembravano inevitabili, poiché eravamo ben decisi ad affermare il nostro diritto, offeso, a rendere omaggio a quel luogo simbolico della resistenza antifascista.

Su quella piazza, qualche centinaio di metri sulla destra, vicino alla caserma dei vigili del fuoco, mi ero trovato la mattina del 9 settembre 1943 e avevo sentito fischiare le pallottole; come potevano fermarci ora le camionette della Celere?

In schiera ordinata, avevamo fatto pochi passi e ci trovavamo proprio in mezzo al guado, non vi era stato ancora alcun contatto con i cordoni polizieschi, quando avvenne la sorpresa; dalla sinistra, dove era stato ben coperto dietro l’angolo di case e muraglie, irruppe dritto su di noi uno squadrone di carabinieri a cavallo, al galoppo, mulinando in aria non sciabole bensì frustini.

Ignoro se sia stato lo stesso mediocre avvocato di provincia che allora sedeva come capo supremo al Viminale, a escogitare questo espediente tattico nuovo per gli scontri di strada a Roma. Io mi ero trovato in una circostanza simile parecchi anni prima, nella campagna di Monterotondo, quando appoggiavo i contadini che occupavano le terre di una grande tenuta, e anche allora ero in compagnia di Lizzadri. In campagna è più facile salvarsi da simili attacchi, alberi, solchi profondi, canali, offrono ripari naturali.

A Porta S. Paolo eravamo totalmente allo scoperto e non ho dimenticato lo scroscio di nacchere degli zoccoli dei cavalli rimbalzanti sull’acciottolato di sampietrini.

Ci sbandammo e gli eroici cavalieri guidati dai D’Inzeo finirono in mezzo alla folla che li accolse con un lancio di proiettili provenienti dal vicino mercato. Ma dietro i cavalieri si erano mossi i reparti motorizzati della Celere, che rastrellavano gli sbandati. Fra questi fu catturato Ingrao che solo più tardi, dopo essere stato identificato in questura, venne rilasciato.

Io, insieme ad altri, ripiegai entro il quartiere Testaccio, dove le squadre di poliziotti ci inseguirono e mal gliene incolse, perché colà furono attaccate da ogni parte, anche da finestre e balconi.

La serata si concluse con una serie di scontri ravvicinati nel mercato coperto del quartiere dove i manifestanti si erano barricati. La Celere non poteva penetrarvi e i poliziotti alla fine furono costretti a ritirarsi, non senza perdite.

In sostanza, l’impiego della cavalleria si dimostrò tatticamente disastroso per l’uomo del Viminale, da una parte esso stimolò al massimo la combattività dei dimostranti, dall’altra contribuì a trasformare una dimostrazione politicamente più che giustificata, ma anche, nelle forme, un po’ rituale, nella sollevazione di massa di un intero quartiere.

E questa, dopo quella che aveva visto protagonisti i D’Inzeo, fu la seconda sorpresa di quella giornata, l’elemento che rivela l’esistenza anche a Roma, come in quelle settimane avvenne a Genova, a Reggio Emilia, in Sicilia, di un potenziale di lotta e di ribellione che le «avanguardie» non avevano previsto.

 

Presentando Centocelle

Sabato c’è stata la presentazione del mio libro a Centocelle, nel circolo di Rifondazione comunista dedicato a Carlo Marx. Sono stati davvero squisiti, li ho ringraziati infinitamente per avermi chiamato e per avermi ospitato con calore. Era la terza presentazione: la prima in casa, nel cuore di Vald’O, a San Quirico d’Orcia, la seconda in pieno centro a Roma, alla libreria del Touring, la terza in braccio al mio quartiere-madre.

C’è stata tanta gente, tutte le volte, e alla fine posso dire che è stato un momento importante, per me. Perché era la mia prima presentazione, era il primo lavoro di scrittura concretizzato in un libro, la prima volta che un editore leggeva un mio testo, la prima volta che lo accettava, la prima volta che qualcuno, senza conoscermi, acquistava un libro con il mio nome sopra.

Scrivere qualcosa che poi si mette a disposizione degli altri è un gesto temerario, in cui ci si offre, nudi, al giudizio del lettore. Quando il testo è partito chi lo legge lo fa suo e lo manda dove vuole: è libero di attribuire qualunque senso a quell’opera, è libero di stroncarla, di denigrarla, di apprezzarla, di conservarla nella memoria, di rimuoverla o chissà che altro. Non so come spiegare il conflitto interiore: la voglia di essere letti e apprezzati, il ritegno/pudore per quello che si è scritto, il senso di “ma chi me lo ha fatto fare” che si incrocia con quello di “ma che ci faccio io qua”.

In queste tre occasioni ho rivisto tanti amici. La cosa mi ha riempito di gioia. Non so se organizzerò altri eventi: il libro sta andando bene, penso si sia anche venduto, finora, ha ricevuto tante recensioni (ne ho raccolte 18, mi pare) tutte positive, e tanta gente mi ha scritto o si è messa in contatto con me per aggiungere un particolare o commentare una storia. Questo mi ha fatto molto piacere, oltre a precipitarmi nell’ansia da inadeguatezza della serie “oddio, ho omesso questo o quel particolare” oppure “mamma mia, chissà se si vede che di quella storia non ne so niente”.

Però è andata. Posso considerarmi a tutti gli effetti autore di un libro che ammucchia un po’ di memorie di un quartiere. Qualcosa che può spingere ad approfondire, o anche a cercare di localizzare dei posti. Che può mettere in moto l’immaginazione. Ho visto un filmato, sabato sera, sul Parco di Centocelle, e a margine della discussione ho preso appunti, ho colto parecchi spunti di cui si potrebbe ancora parlare. Magari lo farò, usando il blog.

Mi sento, a distanza di sei mesi dall’uscita del libro e di un anno e mezzo dalla sua scrittura, come restituito a una storia, per il solo fatto di averla, per sommi capi, raccontata. E credo che questa sia la cosa migliore che io abbia fatto, da parecchio tempo in qua.

L’economia dei lavoretti

Una pericolosa impostura linguistica (…) sta provando a farci credere che la “sharing economy” si traduca davvero con “economia della condivisione”, con tutto il bene che ne deriverebbe. Un nuovo capitalismo, quello delle piattaforme, tanto generoso e altruista quanto il vecchio, che abbiamo conosciuto fino a oggi, era spietato ed egoista.

La sharing economy invece, sotto i brillantini della narrazione prevalente, presenta solo vantaggi. Economicamente efficiente. Ambientalmente rispettosa. Socialmente giusta.
Chi la critica dunque non può che essere una brutta persona.

Peccato che, a dispetto dei termini, più che condividere, la gig economy – cominciamo a chiamare le cose per quel che sono: economia dei lavoretti – concentri il grosso dei guadagni nelle mani di pochi, lasciando alle moltitudini di chi li svolge giusto le briciole.

Share the scraps economy, l’ha ribattezzata Robert Reich. Chi possiede la piattaforma estrae, secondo una modalità neofeudale, una commissione da chi svolge la prestazione.

Così il vassallo Travis Kalanick in un lustro passa da zero a sette miliardi di ricchezza personale mentre sempre più autisti di Uber, dopo l’ennesima decurtazione delle tariffe, dormono nei parcheggi zona aeroporto di San Francisco per essere i primi ad aggiudicarsi le corse buone. Come in ogni casinò che si rispetti, il banco vince sempre.
(…)
Non è una questione di destra o sinistra, ma della tenuta dello stato sociale. Perché se i padroni delle piattaforme sono i campioni olimpici di elusione fiscale e finiscono per pagare tasse da prefisso telefonico grazie a qualche sapiente triangolazione, il welfare a un certo punto non reggerà.

Giusto nel nostro Paese questa preoccupazione sembra non rilevare, superata in scioltezza da un entusiasmo adolescenziale per tutto ciò che viene dalla Silicon Valley. Eppure nessuno come noi in Europa ha tanti giovani disoccupati e precari di ogni età. Siamo davvero pronti a riscrivere l’articolo 1 della Costituzione in un più sincero, ma agghiacciante “L’Italia è un Paese fondato sul lavoretto”?

(Riccardo Staglianò, Lavoretti – Così la sharing economy ci rende tutti più poveri – prefazione – Einaudi 2018)

L’inquietudine della bestia/66

abbiamo corso
piegati umiliati
disastrati senza petto
la pancia a toccare per terra
abbiamo strusciato la faccia sul muro
bevuto la morte
visto bambini scavati
la pelle che tremava
abbiamo galoppato feroci
verso l’oro dei grandi
perché nelle mani
non si reggevano i pugni
e c’era un sorriso immaginato
nel nostro futuro
poi ci siamo seduti:
i letti si muovevano sotto
come serpi tagliate
Dormire era solo un rasoio
il cuore lo spaccava a metà
la vita ha tuonato
in un attimo siamo invecchiati
abbiamo soffiato via i nostri nomi
ci siamo spogliati
perché fossimo solo
di pelle animale
adesso sappiamo
che per correre bisogna sapersi fermare
ed essere terra pronta a morire o cambiare
ed essere questo dio che non ha più nome
che anche lui s’è denudato
che anche lui s’è ferito
che anche lui s’è scorticato il capo

(Ilaria Drago, L’inquietudine della bestia, Edizioni Nemapress)

Invadenti evasioni

05/08/93 h. 8.00. Il Giorno della Stampa precede più o meno di una settimana l’inaugurazione della Fiera. Per le 09.00 dovrei trovarmi dentro la Fiera all’Illinois Building per ritirare l’accredito stampa. Mi immagino l’accredito come una tesserina bianca che si infila nel nastro del feltro floscio. E’ la prima volta che qualcuno mi chiama <<stampa>>. L’accredito mi fa gola soprattutto per le giostre e la roba gratis.
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Sono qui da poco. Vengo dall’East Coast, e vado alla Fiera Statale dell’Illinois per conto di una rivista fighetta dell’East Coast. L’esatto motivo per cui una rivista fighetta dell’East Coast sia interessata alla Fiera Statale dell’Illinois mi rimane oscuro. Il mio sospetto è che di quando in quando un direttore di riviste del genere si dia uno schiaffo sulla fronte e si ricordi che circa il 90% degli Stati Uniti giace fra una costa e l’altra, e così gli viene l’idea di mandare qualcuno con un bel casco coloniale a fare un reportage antropologico su qualcosa di rurale e entroterreno. Penso che stavolta abbiano scelto me perché in effetti sono cresciuto da queste parti, due ore di macchina a nord di Springfield. Crescendo, però, non sono mai stato alla Fiera Statale – mi sono bell’e fermato al livello di Fiera di Contea.
In agosto ci vogliono ore perché la nebbia dell’alba bruci via tutta. L’aria è di lana bagnata. Le 08.00 sono troppo presto per giustificare l’aria condizionata. Sto sulla I-55 e mi dirigo verso S-S-O. Il sole è una macchia nel cielo, che più che nuvoloso è opaco. Il granturco parte appena fuori dalle corsie d’emergenza e arriva fin proprio al limite del cielo. In agosto il granturco è alto quanto un uomo alto. Tra fertilizzanti ed erbicidi all’avanguardia, il granturco dell’Illinois ormai ti arriva alle ginocchia già verso il 4  maggio. Le locuste cinguettano nei campi, un suono elettrico di ottoni che mentre accelero fa uno strano effetto Doppler: Granturco, granturco, soia, granturco, rampa d’uscita, granturco e ogni tanto un avamposto distante lungo un fiume in lontananza – una casa, un albero con la gomma ad altalena, un fienile, una parabola satellitare.
I silos sono l’unico skyline. L’interstatale è squallida e noiosa. Le rare macchine sembrano fantasmi, le facce dei guidatori stordite dall’umidità. C’è una foschia sospesa appena sopra i campi, come fosse la mente del paesaggio, o qualcosa del genere. La temperatura è di quasi 30° e già sale assieme al sole. Si capisce che alle 10.00 li supererà: l’aria è già chiusa e tesa, come si stesse ritirando da un lungo assedio.
Accredito 09.00, Benvenuto e Briefing 09.15, Giro sul Tram Speciale Stampa 09.45.
Sono cresciuto in campagna, qui in Illinois, ma non ci tornavo da tanto, e non posso dire che mi è mancata – il caldo che lievita, l’ubriaca desolazione del granturco senza fine, la piana sempre uguale. Ma in un certo senso è come andare in bicicletta. Il corpo dell’indigeno si regola di nuovo, automaticamente, alla piattezza, e a mano a mano che aggiusta il calibro, mentre guidi, cominci a notare che la piattezza mortale è solo un’apparenza. Ci sono irregolarità, salite e discese, leggere ma ritmiche. Il rettilineo dell’I-55 comincia, appena appena, a salire, magari di 5° per miglio, e poi a scendere altrettanto gentilmente, poi ti trovi davanti un ponte che passa sopra un fiume – il Salt Fork, il Sangamon. I fiumi sono grossi, ma mai come dalle parti di St. Louis. Queste risalite dolci, e poi di nuovo immersioni, verso i fiumi sono morene glaciali, gli orli dell’antico ghiacciaio che livellò le piane del Midwest. Questi fiumi, né grandi né piccoli, hanno origine dal deflusso dei ghiacciai. Tutto il viaggio è una leggera sinusoide così, ma è come il rollio di una nave; se non ci hai passato anni, neanche te ne accorgi. Per chi viene dalla costa, la topografia rurale dell’Illinois è un incubo, che fai meglio ad acquattarti e accelerare – il cielo opaco, il verde dei campi noioso e ininterrotto, il paesaggio piatto e noioso e infinito, sempre la stessa identica vista. Per gli indigeni è diverso. A me, per esempio, fa venire i brividi. Al tempo in cui partii per andarmene al college, la zona non mi sembrava più tanto noiosa quanto invece vuota, solitaria. Come se si fosse in mezzo al mare. Passano settimane senza vedere un vicino. Ti fa venire i nervi.

(David Foster Wallace – Invadenti Evasioni, frammento iniziale – Da Tennis, TV, Trigonometria, Tornado e altre cose divertenti che non farò mai più. Minimum Fax)

La casa di Asterione

Di Jorge Luis Borges – Traduzione di Valeria Noli
labirinto-minotauro03So che mi accusano di superbia, a volte di misantropia o di essere un pazzo. Simili accuse (che punirò a tempo debito) sono ridicole.
È vero che non esco mai dalla casa, ma è anche vero che le sue porte (il cui numero è infinito) sono aperte giorno e notte agli uomini e agli animali.
Entri pure chi vuole.

Non troverà sfarzi donneschi qui, né l’elegante lusso dei palazzi, ma quiete e solitudine. Al contempo, troverà una casa come non ce ne sono altre sulla faccia della Terra. (Mente chi dice che in Egitto ce n’è una simile.) Persino i miei detrattori ammettono che non si trova un solo mobile, nella casa.

Un’altra ridicola bugia è che io, Asterione, sarei un prigioniero. Devo ripetere che qui non c’è una singola porta chiusa, e aggiungere che non ci sono serrature?

Poi a volte dopo il tramonto ho fatto qualche passo per la strada; se sono tornato prima di sera, l’ho fatto per il terrore che mi infondevano le facce della gente, facce scolorite e piatte come una mano distesa.
Il sole era già tramontato, ma il pianto disperato di un bambino e le rozze preghiere del gregge mi facevano capire che ero stato riconosciuto. La gente pregava, fuggiva, si prosternava; alcuni si arrampicavano sullo stilobate del tempio delle Fiaccole, altri mettevano insieme delle pietre. Qualcuno, credo, cercò scampo nel mare. Non per caso mia madre era una regina; non mi posso confondere con la plebe, anche se la mia modestia lo vorrebbe.
Il fatto è che sono unico. Non mi interessa ciò che un uomo può trasmettere ad altri uomini; come il filosofo, penso che nulla si può comunicare tramite l’arte della scrittura. Le triviali minuzie non trovano alloggio nel mio spirito, che invece ha misura per le cose grandi; non ho mai appreso la differenza tra una lettera e l’altra. Una certa generosa impazienza non ha consentito che imparassi a leggere. A volte lo rimpiango, perché le notti e i giorni sono lunghi.
Chiaramente non mi mancano le distrazioni. Come fa il montone che sta caricando, corro per i corridoi di pietra fino a rotolare al suolo, stordito. Mi rannicchio all’ombra di una cisterna o dietro l’angolo di un corridoio e gioco a nascondino. Ci sono terrazze da cui mi lascio cadere fino a giacere insanguinato. In qualunque momento posso giocare a fingermi addormentato, con gli occhi chiusi e il respiro pesante. (A volte mi sono addormentato per davvero, a volte quando ho riaperto gli occhi era cambiato il colore della luce.) Però tra i tanti giochi il mio preferito è quello dell’altro Asterione. Faccio finta che viene a trovarmi e io gli mostro la casa. Con grandi riverenze, gli dico: Ora andiamo a vedere il bivio di prima o Ora usciamo in un altro cortile o Lo dicevo, io, che ti sarebbe piaciuto il canale o Ora vedrai una cisterna che si è riempita di sabbia o Ora vedrai come si biforca il sotterraneo. A volte mi sbaglio e ci mettiamo a ridere tutti e due.
Non solo ho immaginato questi giochi, ho anche meditato sulla casa. Tutte le parti della casa esistono molte volte, ogni luogo è anche un altro luogo. Non c’è una cisterna, un cortile, una fontana, una stalla; sono quattordici (sono infiniti) le stalle, fontane, cortili, cisterne, la casa ha la dimensione del mondo; per meglio dire, è il mondo.
Nondimeno, a furia di percorrere cortili con una cisterna e polverose gallerie di pietra grigia, ho raggiunto la strada e ho visto il tempio delle Fiaccole e il mare. Non l’ho capito sino a che una visione notturna non me l’ha rivelato, ma sono quattordici (sono infiniti) anche i mari e i templi. Tutto esiste molte volte, quattordici volte, ma ci sono due cose al mondo che sembrano esistere una volta sola: sopra, l’intricato sole; sotto, Asterione. Chissà che non sia stato io a creare le stelle e il sole e l’enorme casa, però non me lo ricordo.
Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io li liberi da tutti i mali. Sento i loro passi o la loro voce dal fondo delle gallerie di pietra e corro allegramente a cercarli. La cerimonia dura pochi minuti. Uno dopo l’altro cadono, senza che io mi insanguini le mani. Dove sono caduti, là restano e i loro corpi aiutano a distinguere una galleria dalle altre.
Ignoro chi siano, ma uno di loro, nell’ora della sua morte, profetizzò la venuta del mio redentore. Da allora la solitudine non mi dispiace, perché so che il mio redentore vive e alla fine si eleverà sulla polvere. Se il mio udito cogliesse tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi. Chissà che non mi porti in un luogo con meno gallerie e meno porte.
Come sarà il mio redentore? mi chiedo. Sarà un toro o un uomo? Sarà forse un toro con volto umano? O sarà come me?
Il sole della mattina riverberò sulla spada di bronzo. Non restava più neanche un po’ di sangue.
– Lo crederesti Arianna? – disse Teseo –. Il Minotauro quasi non si è difeso.
Altre Borges-traduzioni di Valeria Noli da leggere assolutamente:
Tre versioni di Giuda
Le rovine circolari

Roma, la dignità e la bellezza

In questi giorni ho visto il disastro provocato dal nubifragio che si è abbattuto su Roma e ho girato per Siena, in centro, nei giorni del Palio. Mi è tornata in mente la differenza che salta agli occhi, venendo via dal caos della Capitale, quando ci si rifugia nella campagna toscana, soprattutto nel territorio di Siena, o nella città.

Roma è un posto unico al mondo, non solo perché c’è passata la storia. Sconta problemi enormi che sono legati alla sua crescita turbinosa, avvenuta nel secolo scorso, che ha portato prima a un’espansione scriteriata, in controtendenza con una difesa della ruralità predicata dal fascismo che voleva un’Italia rurale conuna metropoli di livello europeo, per capitale, poi alla saturazione di tutti gli spazi per rispondere alla drammatica carenza di case, togliendo la gente dalle baracche dei borghetti.

Un’azione volta a soddisfare il bisogno primario senza contemplare altri bisogni strettamente connessi a quello: la possibilità di fare sport, di avere a disposizione del verde pubblico, quella di trovare coesione e socializzazione in spazi adatti, che fossero teatri, cinema, luoghi di ritrovo. Una funzione svolta in parte dalla chiesa e dalle sezioni di partito, e in parte lasciata ai privati.

In Toscana la mezzadria ha disegnato un territorio unico, la cui bellezza, per quanto cercata e centrale nelle intenzioni di chi l’ha voluta, è un effetto collaterale del lavoro. L’azione umana, cioè, ha modellato il territorio in base alle esigenze del lavoro, e il territorio, col tempo, è diventato fonte di sussistenza, e che sussistenza.

La città ha basato il suo sviluppo qualitativo sulla coesione tra i cittadini e sul concetto condiviso di bene comune. Al di là del fatto che Siena, essendo la sede di un’importantissima banca, ha potuto contare sull’occhio benevolo di chi ha smazzato tanti soldi, la qualità che salta agli occhi è la condivisione dell’attenzione per la qualità cittadina. Pulizia, rispetto per gli arredi urbani, attenzione per ogni piega del territorio, che ciascuna Contrada ha gestito direttamente.

Nello sfilare dei popoli contradaioli in giro per la città si tocca con mano la trasmissione di questo valore: i bambini sono perfettamente integrati nel meccanismo, la città si rigenera nell’amore per la propria tradizione e nel culto maniacale della bellezza. Semmai il turismo sempre più aggressivo, oltre che una risorsa economica, può rappresentare un pericolo, con lo spostamento dei residenti e la chiusura/trasformazione degli  esercizi commerciali del centro.

Un pericolo che si avverte anche nelle periferie romane, attaccate, è il caso di Centocelle, da una specie di trasformazione che, classificata come gentrificazione, è, in realtà, una nuova aggregazione di locali e di iniziative che fanno entrare il quartiere nei percorsi della movida romana, con benefici economici correlati e annessa perdita di vivibilità della zona. Il parallelo tra le periferie romane e la città medievale, improponibile per la conformazione cittadina, prende quota se si considerano i comportamenti delle persone e, per conseguenza, dell’amministrazione cittadina.

A Roma, soprattutto in periferia, c’è il problema dei servizi che non funzionano e rendono invivibile larga parte della città. L’accumulo abnorme di rifiuti, siano cassonetti non svuotati o strade non spazzate, il trasporto pubblico in gravi difficoltà, la mancanza di rispetto per i monumenti, gli arredi urbani o gli edifici, pubblici o privati che siano, e poi la sosta selvaggia, la circolazione caotica: tutto si ripercuote sulla qualità della vita, generando stress, tensione, insoddisfazione, aggressività che si scarica sui soggetti più deboli. Anziani, immigrati, persone in difficoltà, che non sanno o non possono difendersi.

Si denuncia così la mancanza di decoro, ma il decoro è dignità. Un attributo delle persone, non dei luoghi, per cui la mancanza di decoro si deve attribuire agli abitanti, o, al massimo, agli amministratori cittadini, e non può venire dall’alto ma deve originare dai comportamenti. Dall’avere cura di cui si è parlato, sopra, a proposito di come il lavoro valorizza il territorio.

E’ facile individuare nella mancanza di coesione e di aggregazione tra cittadini la carenza di dignità con cui ci si comporta in città. E in un contesto simile anche i gesti di resistenza quotidiana finiscono travolti: difficile cambiare una tendenza generalizzata, difficile per un cittadino attivare servizi che non funzionano, difficile parcheggiare bene se non ci sono parcheggi, difficile migliorare la qualità della propria esistenza in città se tutto diventa un problema insuperabile. Se tutto diventa un alibi.

Abitando in provincia la prospettiva cambia. Non c’è differenza, attenzione, nel comportamento degli amministratori, che sono tutti ugualmente criticabili o meno, a seconda dei casi specifiici. C’è differenza nell’azione dei cittadini. A Roma, soprattutto in periferia, ci sarebbe bisogno di ripartire da zero e fissare alcuni modi condivisi di comportamento, il che è impossibile, per una serie di ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare e che sono facili da intuire, se si pensa al contesto condiviso da milioni di persone e agli enormi problemi che, invece di risolversi, sembrano peggiorare sempre di più.

Così sembra che l’unico passo possibile verso il recupero di quella dignità sia aggregarsi e cercare di muovere, dal basso, la ricerca di una città migliore. In provincia ci riescono perché ciascuno si fa promotore e guardiano del territorio, ma la provincia ha numeri ben diversi. Da qualche parte, però, si deve cominciare: e un sussulto di dignità può essere quello di chi rivendica chiarezza sui servizi che non funzionano. Che se ne dicano le ragioni e si agisca per rimuovere gli ostacoli, quando possibile, anche quando questi sono rappresentati da persone che non hanno ben compreso che devono rispettare il patto che hanno sottoscritto con l’amministrazione cittadina.

C’è la corruzione di cui parliamo quotidianamente, c’è l’incapacità dei politici o la loro poca attenzione ai bisogno dei cittadini, meno allettanti del potere. Ma c’è anche una rinuncia, da parte dei cittadini, a pretendere rispetto per la città e condizioni di vita migliori. Una rinuncia alla dignità.

Così, anche se è vero che certi problemi non si risolvono con la bacchetta magica, diventano parte del problema le rinunce:

la rinuncia alla bellezza
la rinuncia alla sicurezza, nel senso della sicurezza che manca e della fiducia verso chi dovrebbe farsene carico e invece. Vedi caso Cucchi
la rinuncia alla giustizia, per cui chi subisce furti e violenze non denuncia
la rinuncia all’umanità, per cui si tollera, e talvolta si invoca, che esseri umani di un colore diverso o di incerta provenienza non abbiano diritto a essere trattati con umanità, curati, assistiti, garantiti e informati nella loro qualità di umani, prima che di cittadini
la rinuncia all’accoglienza, che è un valore che nobilita
la rinuncia al lavoro, che è un diritto e un veicolo di affermazione della dignità dell’individuo
la rinuncia alla salute, che viene ancora prima
la rinuncia al rispetto, che tocca a chi non ha lavoro, né salute, o anche a chi non si vede tutelare come cittadino o essere umano
la rinuncia alla pulizia
la rinuncia al verde pubblico
la rinuncia ai trasporti che funzionano
la rinuncia ai parcheggi
la rinuncia ai teatri
la rinuncia agli impianti sportivi
la rinuncia.

Resistenza, a oggi, vuol dire smettere con le rinunce e cominciare a pretendere.
Agire per rimuovere gli ostacoli, diventare intransigenti, protestare.
In certe circostanze una volta si agiva: l’Italia del dopoguerra è piena di racconti di marce della fame, di insurrezioni contro il carovita, di lotte per la casa e per il lavoro.
A un certo punto, però, c’è stata la rinuncia alla lotta. Forse per via di un benessere percepito che, col degenerare della qualità della vita, almeno in città, non è più tale.

Rivedremo una città vivibile, a Roma, quando si smetterà di rinunciare alla propria dignità di cittadini. Anche smettendo di nascondersi dietro la pochezza dei politici, ricordando che chi ci governa è il risultato delle nostre aspirazioni, manifestate col consenso nella cabina elettorale. Chi non si sente rappresentato agisca, protesti, smetta di subire, si metta in moto per migliorare le cose. Basta anche il minimo sindacale, basta un po’ d’attenzione, basta non girarsi dall’altra parte, basta ricordarsi che anche votare è un esercizio di dignità. Da non demandare a nessuno.
 

 

Lo ska contro il razzismo: 2 Tone e gli Specials

51rVoxg3MjLNon tutti se lo ricorderanno, soprattutto i più giovincelli, ma c’è stato un momento, alla fine degli anni ’70, in cui lo ska ebbe un successone in Inghilterra e, di conseguenza, anche altrove. Non si parla di numeri stratosferici, ma ci furono gruppi che diventarono famosissimi, come gli Specials, il cui primo album (vedi foto) uscì nel 1979, con la band che era già attiva da un paio d’anni ed aveva partecipato a Rock against racism.

Fondata da Jerry Dammers, bianco e sdentato tastierista (nella foto di copertina in primo piano, attorniato dagli altri 6), la band aveva ottenuto un successo notevole, pur partendo dalla provincia (Coventry) e avendo inciso un primo singolo autoprodotto per l’etichetta 2 Tone, che divenne poi a suo modo leggendaria.

Lo ska era un genere musicale nato in Giamaica, all’inizio degli anni ’60, scandito da una chitarra ritmica che faceva un ripetuto suono ipnotico, chiamato skank, da non confondere col twang tipico del rockabilly.

L’andamento era più lento e sognante (ascoltare per esempio gli skatalites, esponenti dello ska della prima ora, qua), mentre il revival degli Specials era più veloce e grintoso, innervato dall’influenza del punk e del pub rock che imperversavano in UK in quegli anni.

Gli Specials erano un gruppo multirazziale, all’epoca rarissimo. Con loro, e anche grazie a loro, si misero in evidenza anche i Beat e i Selecter. Insieme composero una scena, che vedeva come elementi di punta i Madness, tutti bianchi, che ottennero un importante successo con la loro One step beyond, stazionando nelle charts di mezzo mondo con i loro primi due LP.

Gli Specials, però, erano i più interessanti: più qualità, testi che spesso affrontavano il tema della convivenza tra bianchi e neri, a cominciare dalla scelta del nome dell’etichetta, 2 Tone, appunto, e dal rigoroso bianconero a scacchi, presente sempre sui dischi, oltre che sulle Vans che si indossavano al tempo e che sono ancora oggi di moda. Il loro stile incrociava elementi presi dai mods e capelli rasati, pantaloni col risvolto, mocassini, cappellini.

La musica era trascinante, usava la potenza dei fiati e incrociava più voci, talvolta con cori da stadio, altre volte facendo risaltare il contrasto tra voci afro e voci british.
C’erano molti gruppi multirazziali all’epoca: la più fortunata fu l’esperienza degli UB40, che facevano reggae e che hanno all’attivo un disco d’esordio tra i migliori in assoluto, Signing off (ascoltate, vi prego, bellissimo), con in copertina la riproduzione di un tesserino dell’ufficio di collocamento.

Gli Specials sfornarono una serie di singoli trascinanti, divertenti, danzerecci, in un momento di fermento musicale spumeggiante: uscivano continuamente dischi imperdibili, capolavori che ci tenevano incollati alle radio e in perenne ricerca di primizie d’oltremanica e oltreoceano.

Chi si è preso la malattia della musica in quel periodo sa di che parlo: niente a che vedere con le discografie fossilizzate su Pink Floyd, Genesis e Deep Purple, Yes, ELP e Jethro Tull di quelli che dicevano di intendersene a quel tempo.

Era musica eccitante, sensuale, moderna, festosa, divertente, inclusiva. Credevamo di aver scoperto qualcosa che ci rendeva diversi dagli altri e mi rendo conto, oggi, avendo imparato a strimpellare una chitarra, di quanto potesse essere eccitante per loro fare musica facendo diventare concrete idee e suggestioni, vendendo dischi a palate e girando l’Europa facendo ovunque il tutto esaurito, senza essere dei virtuosi.

E’ stata una bella stagione, per gli Specials durata essenzialmente due album: oltre al succitato esordio, il secondo, More Specials, meno omogeneo ma ricco anche lui di gioiellini di pregiatissima fattura, tra i miei preferiti ancora oggi.

Gli Specials, come gli UB40, sono stati poi resi immortali, e spero per loro ricchi, dall’esagerazione di citazioni fatte da film, pubblicità, moda e altro.
Jerry Dammers e soci, oltre a farci ballare, ci hanno regalato qualche inno all’integrazione che oggi sarebbe il caso di mettere sul giradischi spesso e far conoscere agli altri. Soprattutto Racist friend, che invita l’ascoltatore a porre fine all’amicizia con un eventuale amico razzista, o Free Nelson Mandela, incise come Aka Specials, dopo la dipartita di alcuni membri dissidenti, fondatori dei Fun boy three.

Se non li conoscete (impossibile) questi sono i link per farvi una cultura:
Specials (primo album)
More Specials (secondo album)