Il muro bianco

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(di Antonio Rezza)

C’era una volta un ragazzo che decise di porre fine alla sua vita con il gas di scappamento dell’automobile del padre. Prese il tubo, lo spezzò, lo diede alle narici e disse: “Prendete e asfissiatene tutte, questo è lo scappamento offerto in sacrificio per voi”.

Il giorno dopo un altro giovane fece lo stesso con il tubo della madre. Nei giorni successivi altri li imitarono chi con la propria, chi con quella della sorella e chi con la vettura dei parenti alla lontana.

Poi, all’improvviso, nessuno più.

Il popolo, che aveva seguito l’accaduto con il fiato sospeso, si chiese: “Come mai nessuno più?”.

C’era una volta un bambino che rimase chiuso, d’estate, nella macchina dei genitori e morì soffocato dal caldo.
Il giorno dopo un altro, poi altri ancora per una settimana. E poi nessuno più.

C’erano una volta i pirati della strada che schiacciavano vecchi, signore e infanti per poi fuggire tra le urla dei superstiti affannati. Donne e bambini morivano subito, i vecchi, incurvati dalla vita che accorcia il sentimento, si rotolavano sull’asfalto e vaffanculo pure ai vecchi.

Il giorno dopo ancora.

Dopo un po’ nessuno più.

C’erano figli che prendevano a sassate i genitori. Solo per una settimana “chi è senza pietra scagli la prima mano”. Passò un signore senza mani e senza pietra. Lanciò i piedi ma non ebbe il coraggio di seguirli.

E se ne andò senza mani e senza piedi.

Poi mai più.

C’erano attentatori che piazzavano bombe, altri che sparavano tra la folla ignara, altri ancora che si facevano esplodere tra i passanti occasionali.

Ma per fortuna solo per un po’.

C’erano ragazze prese a calci ma solo per tre giorni.

Poi tornò il rispetto.

C’erano scolari molestati da maestre elementari, tedeschi che morivano per un’allergia, mucche pazze per un mese circa, polli ammalati per poche settimane, poveri affamati in una stazione, clandestini ammassati sulle coste occidentali, ricchi accusati di violenza sui minori, politici corrotti per sei giorni, scommesse irregolari a intervalli consentiti, capi di culture avverse soppressi a colpi di mitraglia, rivolte africane simultanee, operai in sciopero per la miseria di una vita buttata, spazzatura a intermittenza sui cigli delle strade, segreti di Stato spifferati da benefattori senza dignità, mozzarelle radioattive.

Tutto per un po’.

Poi niente più.

C’era una volta l’istruzione obbligatoria che insegnava a leggere ma non a scrivere bene.

C’era la scuola corrotta che applicava il rudimento per immolare migliaia di vittime al sacrificio della lettura coatta.

C’erano i giornali, la televisione, i libri, i cinema e i teatri. E purtroppo ci sono ancora. Soprattutto i giornali.

Scritti da chi non ha mai letto un lettore. Scritti per far leggere al lettore che tutto accade solo per un po’.

Quel po’ che serve a chi scrive per barattare il culo ormai alla frutta con un pezzo di pane che in quello stesso culo va a morire.

Se chi scrive leggesse ciò che scrive, rimarrebbe inorridito dalla menzogna programmata.

Se il lettore legge solo chi scrive, va incontro al fallimento. Fallimento organico e pianificato.

C’era una volta un paese dove chi scriveva veniva messo al muro da chi leggeva.

Il muro era bianco, il sangue è sempre stato rosso.

Chi aveva sempre scritto non poteva leggere ciò che il sangue di lì a poco avrebbe scritto.

Chi aveva sempre letto, sparò.

E il sangue di chi aveva scritto incise sul muro bianco che la speranza di chi scrive è che chi legge non torni analfabeta.

(Antonio Rezza – Clamori al vento – L’arte, la vita, i miracoli – ilSaggiatore 2014)

 

Fidel Castro

2-fidel-castro-e-il-cheLa polemica su Castro che infuria sui Social è insipida perché è trita e ritrita e risente/riflette le posizioni che ciascuno di noi assume da “tifoso” della politica.
La figura di Fidel è tra le più importanti del novecento e ciascuno ha gli elementi per valutarla dal proprio punto di vista, esprimendo un giudizio positivo o negativo.

Quello che non si può mai negare è stato il contributo della Rivoluzione Cubana a costruire e ad alimentare un punto di vista, che si può riassumere nel bisogno di uguaglianza e di giustizia sociale. Quello che è successo a Cuba dopo la Rivoluzione racconta la storia di un paese povero, che ha pagato il fatto di essersi sottratto all’egemonia culturale, economica e militare americana cadendo fatalmente sotto l’altra metà del mondo della guerra fredda.

I conti con la mancanza di democrazia, la repressione del pensiero politico dissidente e tutte le altre cose di cui si parla più o meno a proposito riguardano il dopo.

Quello che da Cuba ha nutrito i sogni di mezzo mondo è stato il sollevarsi contro un destino di sfruttamento e di negazione del diritto a esistere, per decidere del proprio futuro.
Tutto si può dire meno che Cuba sia passata dall’essere il trastullo di un dittatore a un altro. Cuba è stata per decenni in primo piano, ha mosso coscienze, ha raccontato un modo diverso di vedere il mondo, con errori e contraddizioni, con tutte le critiche che è possibile fare. E questo lo si deve a Fidel Castro, altrimenti staremmo parlando di una Haiti o, al massimo, dei paradisi di Santo Domingo, o di un territorio di scorribande per gente stanca di stare a Miami a crogiolarsi al sole.
Questo, semmai, sarà il dopo.
Ma prima c’è stata una storia da raccontare.

Memorie dal sottosuolo: le fungaie di Centocelle

(Scritto per Emergenze il 22/11/2016)

Il sottosuolo, si sa, evoca pensieri angosciosi. Tutti, da piccoli, abbiamo fatto i conti con la fifa, e qualcuno non se n’è mai liberato. Il buio, il silenzio, l’ignoto sono spauracchi che si possono trovare nei sotterranei, nelle cantine, nelle grotte. O anche nei sogni, che spesso rivelano i pensieri oscuri che si rincorrono nel sommesso dialogo interiore che mormora incessante quando dormiamo, libero dalle pastoie del nostro controllo.

A Centocelle era facile, una volta, trovare un accesso alla fitta rete di cunicoli sotterranei, vecchi di secoli e secoli, di cui si sentiva quotidianamente parlare.
“A Roma nun ce fa er teremoto, sfoga tutto sottotera, è tutto vòto”, diceva Alvaro a Memmo. I due, bene informati, alzavano il bicchiere d’olevano e brindavano, non si sa se alla maggica o alla faccia sua, o a quella de chi ce vò male. Quando stavano ingranati je daveno de cògnacche Tre stelle, e allora te poteveno ariccontà de quanno ce stava er Gobbo der Quarticciolo che girava a castigà quei brutti infamoni de li borsari neri, li mortacci loro.

Il Gobbo, al secolo Giuseppe Albano, era un giovane immigrato calabrese che viveva nelle case popolari costruite dal Fascio al Quarticciolo, dove alloggiava una parte degli sfrattati di via dell’Impero, bonificata per costruire la via dei Fori Imperiali, inno alla vanagloria del dittatore.

Albano, ribelle irriducibile, mise insieme una banda che divenne, con la guerra, un gruppo tra i più attivi della Resistenza romana. Espropri proletari, spedizioni punitive contro collaborazionisti e borsari neri, redistribuzione delle ricchezze recuperate, azioni contro i fascisti e i tedeschi, come quella in cui fu ucciso un ufficiale nazista a piazza dei Mirti, dove c’era la vecchia trattoria in cui si riunivano e facevano comizi i partigiani, tavoli e panche di legno e una rota der carretto appesa fuori.

Si usava, nelle trattorie, attaccare al muro o all’esterno una ruota da barroccio, di legno, in genere colorata di rosso e verde. L’insegna della Peroni e quella del Chinotto Neri completavano l’opera. In piazza dei Mirti c’era anche una specie di pergola che proteggeva dal caldo (ma nun è er callo, è l’ummido che te frega) e la gente si fermava per una chiacchiera e un quartino, o un mezzo litro (fojetta).

Il Gobbo e la Resistenza romana usavano la rete fitta di cunicoli per nascondersi, sfuggire ai tedeschi o tendere loro micidiali imboscate. Si trattava di cave di pozzolana scavate dai romani, attive da secoli, in piccola parte usate anticamente come catacombe. Autentiche strade larghe metri e metri che s’intrecciavano in incroci ortogonali, diramazioni, svolte, affioramenti e frane, grotte più ampie e rivoli che si perdevano nell’oscurità e nel silenzio rotto dallo sgocciolio perenne dell’acqua piovana o di quella, sempre più copiosa, che lasciava filtrare la rete idrica. Roma, si sa, d’acqua ne spreca tanta.

A Centocelle c’è, intatto, un pezzo dell’Acquedotto alessandrino. Scende giù per via dei Pioppi, attraversa la Togliatti, che una volta era la Subaugusta, oppure la Botanica, e risale verso il quartiere Alessandrino che chiamavamo la Borgata.

C’era un fosso, nel punto più basso, che ogni tanto straripava e allagava tutto. Ora c’è rimasto il toponimo (via del Fosso di Centocelle), che si perde tra fiori e piante che caratterizzano lo stradario dei due quartieri.

All’incrocio tra lo Stradone attraversato dagli archi e la Casilina s’apriva un cunicolo scavato dal Fascio che passava sotto l’aeroporto. Non un posto qualunque, sopra a quel pratone aveva volato Wilbur Wright in persona.
Mussolini voleva farci qualcosa che somigliasse a una metropolitana.

Il tunnel doveva correre interrato parallelo alla Casilina e sbucare dalle parti del Mandrione, dove hanno rinvenuto, qualche tempo fa, una piantagione di marijuana che sfruttava come serra un pezzo di galleria, attrezzata a dovere di lampade alogene per una climatizzazione favorevole.
Mussolini avrebbe deplorato, o forse avrebbe lodato lo spirito autarchico dei coltivatori, imponendo loro di chiamare le piante con un più appropriato e italico, ancorché effeminato, Maria Giovanna.

Riscendendo dal Mandrione verso Torpignattara e costeggiando gli archi dell’acquedotto di cui sopra, giunto ormai alle porte della città, si arrivava alla zona degli sfasciacarrozze di via di Centocelle, dove c’era un accesso alle grotte che nel frattempo erano state trasformate in fungaie, illuminate e attrezzate, ma solo per una parte minima delle gallerie antiche.

Chiuse le fungaie (fine anni ’70) il luogo era diventato uno snodo di piccoli traffici ed era presidiato dalla figura grottesca di una prostituta anziana che stazionava sul posto, spesso inveendo contro gli automobilisti che le passavano davanti apostrofandola nei modi più turpi. Goliardia. Quella donna era una caricatura, come altre figure del quartiere, dove convivevano lavoratori, gente che viveva di espedienti e un fitto universo di creature in difficoltà.

Noi, piccoli, giravamo, con le mamme o con i compagni di scuola, tra campi di tabacco e prati dove razzolavano le matrone decadute, insieme alle massaie immigrate dal Molise o dalla Calabria, in cerca di cicoria.

Facevamo le porte con le giacche e giocavamo a pallone, oppure esploravamo la zona in cerca d’avventura. Qualcuno con un po’ meno fifa non si fermava all’entrata di quelle grotte, ma provava ad avanzare fino a che il buio non gli impediva di andare oltre. C’era una volta a cupola, c’era una discesa di terra smossa percorribile ma ripida, e in fondo quello che sembrava un budello oscuro, scavato, di cui non si vedeva il fondo. Alcuni miei compagni delle medie si erano organizzati per un’esplorazione, con le torce, da fare in più d’uno che se succede qualcosa non sia mai uno torna fuori e chiede i soccorsi.

Io non ci sono andato.

Giravano troppe storie terrificanti, c’era quel bambino, Marco Dominici, che era sparito giù in fondo, dalla parte di Forte Prenestino, e non si sapeva chi l’avesse preso e dove lo tenessero nascosto. E capirai, a Centocelle er sottosuolo è pieno de grotte, è tutto scavato, magari te voi annisconne. E chi te trova?
Leggende dicevano di gente scomparsa e mai più ritrovata. Marco fu trovato morto, qualche anno dopo, in un cunicolo nella zona di Forte Prenestino/Borgo Don Bosco. Della sua scomparsa fu accusato un povero squilibrato, poi assolto al processo. Il padre di Marco affermò poi con certezza che quel cunicolo era stato setacciato in lungo e in largo dalle forze dell’ordine, senza che il corpo del bambino fosse rinvenuto. Marco era andato al Borgo Don Bosco a vedere un film. Anch’io andavo al cinema in parrocchia, ma a San Felice, dalla parte opposta del quartiere. Ho qualche sbiadito ricordo di un Marcellino pane e vino pomeridiano.

Leggende e superstizioni, su quelle grotte, ce n’erano tante. Storie simili a quelle degli alligatori di New York, che hanno preso vigore quando il cemento ha aggredito i pratoni, negli anni ’70, tappando le buche dove noi cercavamo di infilarci a curiosare. Così una parte dei cunicoli sono stati trafitti dai pali di fondazione delle case, riempiti dai liquami, dalle infiltrazioni di fango, pioggia e perdite d’acqua, e popolati da una fitta fauna di zanzare, scarafaggi e topi.

Ogni tanto si segnalava un’invasione di ratti, ricordo bene quella di via Riofreddo, a Centocelle vecchia, che si riconosce dai toponimi dedicati ai paesi della Ciociaria. Un giorno, forse per un crollo avvenuto in qualche cunicolo sottostante, la strada si riempì di toponi che sciamavano, incuranti delle persone che tentavano di aprirsi un varco verso casa. Mondi che venivano accidentalmente a contatto, prima di rientrare nei rispettivi spazi.

Si dice che i cunicoli, oggi, siano poco sicuri. Non perché ci abiti una Shelob de’ noantri, che terrorizzi i passanti con i suoi artigli proteggendo una sua via del Monte Fato e una sua Mordor. Non perché quel dedalo oscuro sia il luogo che ha ispirato Tolkien per immaginare il sentiero dei morti percorso da Aragorn, tallonato dalla Grigia Compagnia. Oltre al pericolo di crolli e al fatto che solo una parte di quei cunicoli sia stata mappata, c’è la possibilità concreta che quel mondo buio ospiti qualche diseredato in cerca di riparo dalle intemperie. Un mondo di sopra che s’immerge e rende la pariglia ai ratti di via Riofreddo, spettro che evoca le storie sordide dei ragazzini che vivono nelle fogne di Bucarest. Lontane ma vicine, possibili anche qui, che già, forse, accadono.

Un mondo buio dove ci si può sottrarre alla vista di chi sta fuori, accecato dal buio dell’indifferenza. I partigiani lo frequentarono per combattere e per liberare la città. La dittatura e l’occupante nazista avevano ammorbato l’aria e terrorizzato la gente ma non sapevano penetrare in quel ribelle mondo sotterraneo, dove resistette la libertà che qualcuno voleva soffocare, prima di uscire fuori a riprendersi la luce.

 

Come faremo a capire il mondo senza la poesia?

Pubblicato il 15/11/2016 su Emergenzeweb.it

Le barche a vela
l’acqua d’argento
i cristalli di sale
sulle sue sopracciglia

Il mondo intero
improvviso e splendente
un attimo prima che D-o
ti ci facesse entrare

Io non lo conoscevo.
Leonard Cohen, dico.
Ho alcuni suoi dischi, una raccolta di poesie, scritti e disegni pazzi. Ma non lo conoscevo.
Non ho potuto piangere quando è morto.
L’ho scritto su facebook, certo. Lo fanno tutti quando muore uno famoso e Leonard Cohen lo era. L’ha citato persino Paolo Sorrentino nello Young Pope, puntata andata in onda il giorno stesso della morte del Poeta. Pensa che fortuna: Hallelujah, nella versione di Jeff Buckley, così ti prendo due piccioni-cadaveri eccellenti con una fava, e lo scrittore preferito da Pio XIII, che sarebbe Elmore Cohen, con l’elisione dell’intersezione che sta a unire, sottintesa: Elmore (Leonard) Cohen. Due giganti e solito magnifico affastellamento di citazioni che Sorrentino ammucchia facendo da specchio al disordine delle nostre teste.

Like a bird on the wire
Like a drunk in a midnight choir
I have tried in my way to be free.

Le canzoni di Leonard Cohen, quelle vecchie, quelle più famose, erano poesie appoggiate delicatamente su una struttura scarna, declamate con voce sognante. Ascoltate oggi, sembrano noiose, e forse lo erano anche 50 anni fa. Sul mio piatto rimanevano giusto un po’ di tempo, prima di lasciare il posto a qualche rutilante Strummer.
Parlavano d’amore, di libertà e di dio.
Anzi, D-o, ché Cohen non scriveva il nome della divinità.

Amore e trascendenza. Più amore, vista la corte di femmine di cui si è saziato il poeta, in cerca perenne d’ispirazione. Un amore gentile, costruito con i versi più eleganti, la bellezza della sua figura misteriosa, la voce profonda. Amore e preghiera, i due ascensori per l’infinito, quello che giustifica l’esistenza o comunque aiuta a sopportare l’enormità del peso del mondo.

Grazie ad alcune canzoni
in cui parlavo del loro mistero,
le donne sono state
eccezionalmente gentili
nei confronti della mia vecchiaia

Il Poeta è morto quando Trump vinceva la corsa alla Casa Bianca. Il bello che lascia spazio al brutto. Ma non c’è un vero nesso tra le due cose. E nemmeno si deve pensare che il 2016, mietitore di figure leggendarie della musica, sia un anno “maledetto”. I superstiti del rock sono malandati, pagano anni di eccessi e anzianità anagrafica.
I nostri miti sono morti e sepolti, questo è il problema. Il mondo è cambiato e non c’è posto per l’utopia, chi cantava la pace, l’amore e la comprensione giace all’ombra dei cipressi. Come faremo a capire il mondo senza la poesia?

Oggi debutta a Firenze (Rifredi) l’Ubu Re di Roberto Latini. Chi può vada a vederlo, ne vale la pena. L’Ubu è la perfetta rappresentazione della scelleratezza e degli eccessi del potere. Descrive perfettamente Trump, che incarna in una figura sola la rozza caricatura di sovrano avido e laido di Père Ubu e la maligna grettezza della moglie. In più Trump eccelle di suo nel ramo phynanze e non ha bisogno di decervellare nobili per rubargli i soldi. Si può così dedicare ai poveri e agli immigrati. Di quello che fa alle donne, poi, ha già abbondantemente detto.

La storia si racconta
Coi fatti e le menzogne
Voi possedete il mondo
Dunque lasciate perdere

Intanto noi discutiamo: ma Clinton o Trump non era lo stesso? Critichiamo la logica del male minore. E mi pare giusto.
L’uno e l’altro ci lasciano correre come criceti nella ruota, producendo per consumare, per tutto il tempo che ci rubano. E il tempo dovrebbe servirci per vivere.

Mi viene in mente Pepe Mujica:
Le cose materiali non producono affetto, lo fanno solo gli esseri umani.
Per coltivare questi affetti bisogna avere tempo per stare con amici, figli, amore.
Bisogna avere il coraggio di lottare per gli affetti. Non è possibile nessuna felicità senza affetti.
Non lasciatevi rubare il tempo della vostra vita.

Amore, affetto, poesia, trascendenza, bellezza. Sono queste le medicine che scacciano via il Trump che ci ammorba. Antibiotici senza controindicazioni: non sono medicinali, si possono usare senza nessuna cautela.

Quando tutto crollò
E arrivò il dolore
Adesso lo capisco
Ero là per te

Non chiedermi come
So che è vero
Adesso lo capisco
Ero là per te

Faccio i miei progetti
Come sempre
Ma quando mi volto indietro
Ero là per te

Cammino per le strade
Come facevo un tempo
E gelo di paura
Ma sono qui per te

Rivedo la mia vita
Da cima a fondo
Non ero mai io
Eri sempre tu

Tu mi hai mandato qui
Mi hai mandato là
A rompere cose
Che non so riparare

A costruire oggetti
Con il pensiero
E altri ancora a crearne
Evitando di pensare

A mangiare cibo
E a bere vino
Un corpo che
Credevo fosse mio

Vestito da arabo
Vestito da ebreo
O maschera di ferro
Ero là per te

Sentimenti di gloria
Sentimenti tanto sozzi
Il mondo esce da
Un panno insanguinato

E la morte è vecchia
Ma è sempre nuova
Io gelo di paura
E sono qui per te

Lo vedo chiaramente
L’ho sempre saputo
Non si trattava mai di me
Ero là per te

Ero là per te
Mio caro
E secondo la tua legge
Tutto si è compiuto

Non chiedermi come
So che è vero
Adesso lo capisco
Ero là per te

(versi di Leonard Cohen)

Il Teatro di Centocelle

Scritto per Emergenze l’8/11/2016

Il teatro di Centocelle, o del garage che divenne teatro d’avanguardia

moravia-e-dacia-maraini
dacia maraini e alberto moravia

La memoria aiuta quando la tristezza fa venir meno l’immaginazione, diceva qualcuno il cui nome non ricordo, per via dell’ora tarda.
Secondo me immaginazione e memoria possono sostenersi a vicenda e viaggiare di pari passo, anche in questi tempi social, che tendono a sottrarci l’attenzione, dicono alcuni, bombardandoci di stimoli insignificanti.

Avere la timeline piena non vuol dire, però, dimenticarsi automaticamente.
Basta lasciarsi andare alla deriva per isolarsi dal rumore di fondo, passeggiando a naso per aria anche nelle pieghe dei ricordi personali, che si legano profondamente ai posti.

Tutti abbiamo nelle ossa l’istinto nomade. Chi di noi lo ha assecondato, però, si becca l’effetto collaterale del migrante: la nostalgia, che conserva il ricordo di casa vivido e incancellabile.

Qualche volta mi capita di sentire ancora a memoria lo sferragliare del tram di Centocelle che gira intorno all’isolato di piazza dei Gerani per andare a fermarsi al capolinea.
Due linee, una che porta alla stazione e l’altra che attraversa la città, arrivando a un passo dal Vaticano, dopo aver accarezzato l’Università, il Policlinico, i Parioli, lo Zoo. Il famoso 19, raccontato da nobilissime penne, come quella di Edoardo Albinati.

La notte si sentivano i tram che passavano, anche a una certa distanza, e se avevi il sonno leggero potevi farti svegliare dalle prime corse del mattino, prima che il quartiere coprisse con i suoi rumori caratteristici i suoni della notte.
Centocelle si percorreva a piedi, appresso alla mamma, a fare la spesa da Fiorucci, che era un supermercato in piena regola, proprio davanti alla curva che faceva stridere le ruote del tram. Continuando la passeggiata verso piazza dei Gerani si arrivava a un pezzo di marciapiede più largo. Lì c’era una bacheca verde dove veniva affissa l’Unità dai militanti della sezione PCI che stava giusto dietro l’angolo.

Qualche passo dopo s’incontrava, quasi sempre, una specie di tazebao, che pubblicizzava gli spettacoli del Teatro di Centocelle. Io facevo le elementari ed ero molto curioso. Cercavo di immaginare cosa potesse esserci in quel teatro, dove non ricordo di essere mai entrato, nemmeno dopo. E anche adesso, cercando puntelli per la memoria che supportino la mia immaginazione, fatico a trovare qualcuno che racconti quell’avventura.
Il teatro era in una specie di garage/scantinato che stava sotto un negozio di pelletteria che faceva angolo, al piano terra di un condominio. La sala poteva ospitare pochi spettatori, un centinaio o poco più, e aveva preso il posto di una palestra di karate a sua volta leggendaria. Si favoleggiava di eroi in grado di spezzare un numero indefinito di tavolette accompagnando con un urlo il colpo secco del taglio della mano, emulando Bruce Lee e le scene in cui sbaragliava nemici, a mani nude contro armi terribili e soverchianti plotoni urlanti di cattivi. Era cinema che faceva soprattutto cassetta, ma Bruce aveva le sue qualità. Per esempio, piaceva a Quentin Tarantino. Chissà quanti scafoidi fratturati avrà sulla coscienza il vecchio Bruce Lee…

Il Teatro di Centocelle, invece, non nasceva per fare cassetta. I biglietti costavano poco, dalle 600 alle mille lire, e spesso si facevano spettacoli a sottoscrizione, per sostenere le lotte di oscuri nobilissimi operai che reggevano con i denti il posto di lavoro minacciato dai protervi nemici di classe, gli sfruttatori delle masse, i padroni.

Gli spettacoli, nonostante il prezzo del biglietto, erano di una certa qualità. Testi scritti da Dacia Maraini e portati in scena da Bruno Cirino, fratello maggiore di Paolo, che ometteva il Pomicino e si posizionava decisamente più à gauche. Storie del quartiere ai tempi del fascismo, patimenti del popolo esposto alla malasanità, tristi esistenze di giovani ragazze, come Anna, la protagonista morente di “Manifesto dal carcere”, che inaugurò il teatro il primo di marzo del 1971.

Le scene di “Manifesto” erano state dipinte da Renato Guttuso e il teatro era frequentato da Alberto Moravia, nato Pincherle, che di Dacia era da tempo l’anziano compagno.
Centocelle era un quartierone senza un metro di verde, anche se lo delimitavano i pratoni che poi furono sepolti da una colata di cemento, ma questa è una storia che racconteremo un’altra volta.

Il teatro teneva banco sui giornali e ribolliva d’iniziative che riscontravano il consenso popolare e venivano seguite dall’occhio della critica, sempre tesa a sottolineare il possibile dibattito che poteva innescarsi dopo aver assistito alla rappresentazione di ponderosi testi sul Vietnam o aver provato un fremito d’indignazione alla vista delle scene di squadrismo rievocate dagli attori sul palco. La Maraini si ricorda un (inverosimile) numero di abbonati: 5000. Probabilmente si trattava di tessere, vista la capienza del teatro. Alcuni ricordano di aver visto Francesco De Gregori e Antonello Venditti suonare, narrano di un’intesa col Folkstudio, raccontano la presenza fissa di Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli e quella saltuaria di Dario Fo. La Maraini ricorda anche il lavoro certosino di Judith Malina e di Julian Beck, al secolo Living Theatre, e la loro incapacità di rapportarsi all’esistenza pratica di tutti i giorni. Io li vidi una quindicina d’anni dopo, più volte, all’ex SNIA. Beck non c’era più, ma gli spettacoli erano eccezionali. Chissà se si sono davvero esibiti a Piazza dei Gerani…
Il Teatro di Centocelle durò qualche anno, io smisi i calzoni corti, che all’epoca s’imponevano ai marmocchi sotto ai dieci anni, e mi adattai alla zampa d’elefante, come tutti. In giro per il quartiere se le davano tra comunisti, fasci e polizia, e la situazione stava per peggiorare. Poi arriverà l’eroina a calmare le acque.

A Centocelle di teatro “serio” non si è più parlato. Il negozio di pelletteria sfrattò i capelloni sovversivi che si riposizionarono a via Carpineto, dove infuriava la stagione dell’occupazione delle case. I borghetti di baracche, in giro, mostravano un’umanità sotto la soglia dell’indigenza. Sottoproletariato, si chiamava, mentre si cercavano modi tortuosi per complicare la realtà guardandola con gli occhiali dell’ideologia.

Noi respiravamo tutta quella violenza senza filtri, e non c’era davvero bisogno di chi mettesse le didascalie. Il Teatro di Centocelle però si poneva il problema del linguaggio, almeno così diceva la Maraini, che cercava una strada non formale per rendere facilmente fruibile la rappresentazione. Oggi mi viene il mal di testa solo a pensarci, ma forse era giusto così. Non erano tempi buoni per artisti ermetici, er popolo era centrale e se doveva da parlà chiaro e comprenzibbile, la lotta de classe necessitava di codici accessibbili.

Poi, finito il ricreativo, principiava il culturale: “forse su quest’ultima precisazione (quella del linguaggio non formale, nota mia), avremmo qualche obiezione da fare, soprattutto perché, oggi, troppi messaggi ideologici non formalizzanti rischiano proprio di rimanere inerti e inefficaci socialmente”. Così commentava l’Unità, a firma di un certo R.A., il giorno della prima.

E se lo diceva l’Unità doveva essere per forza vero.

Viaggiare tra le macerie

Ho avuto il privilegio di vedere pubblicato un mio articolo su l’Unità di oggi, 3 novembre 2016. E’ il racconto per immagini di un viaggio che ho fatto per andare a controllare se la mia casa era ancora in piedi, mescolando istantanee che mi sono rimaste impresse nel viaggio alla memoria viva di anni e anni trascorsi a percorrere in lungo e in largo la terra martoriata dai terremoti degli ultimi giorni.  

Viaggiare verso Norcia, d’autunno, regala panorami mozzafiato. Il sole brilla sull’acqua tranquilla del Trasimeno e rende traslucida la nebbiolina accucciata sul fondo valle che lascia il posto ai boschi quando si arriva in Valnerina. I colori allora virano verso il rosso.

Le strade sembrano deserte. Ci si gode il paesaggio fino a dimenticare che si viaggia verso i luoghi che da due mesi soffrono le pene dell’inferno scatenato dalle faglie ballerine dei Sibillini. Rompe l’idillio il carabiniere che ferma le macchine a Borgo Cerreto, indirizzandole verso una via alternativa, stretta e tortuosa, che fa da bypass al breve tratto di strada invaso dai sassi che il terremoto ha fatto rotolare, come per fare un dispetto.

A Norcia c’è il campo con la protezione civile, i vigili del fuoco, la finanza, la stampa, la tv, i carabinieri, la polizia, la forestale. C’è anche il sindaco, che è uno straccio. E ci sono i cittadini, smarriti, che appendono le proprie speranze a un foglio da compilare per farsi accompagnare a casa, a recuperare le cose necessarie. Occhi stanchi e smarriti, qualcuno è in pigiama. C’è chi ha voglia di piangere e chi accenna a una protesta. Gli allevatori temono per le loro bestie, senza riparo e con l’inverno alle porte. La risposta dell’autorità apparecchia strade impercorribili per chi ha bisogno di soluzioni rapide. Ma di più non si può fare, e spesso il grido e il pianto si sciolgono in una stretta di mano/carezza dei volontari. Sembrano più le divise che gli sfollati, impressione riportata già all’Amatrice, tra agosto e settembre. La sensazione di una confusione che gronda buoni sentimenti con cui farsi perdonare qualche inefficienza, o carenza di coordinamento. Le parole dell’autorità sembrano vuote, davanti agli occhi della gente, che dicono di più. Ci sono passati, i norcini. Nel 1980, e poi nel 1997. Sanno tutto e chiedono soluzioni che somiglino a quelle adottate allora, che oggi hanno garantito la sopravvivenza a tutti. Ma di tempo ne è passato, tanto e poco, se si considera che in 36 anni questa striscia di terra, dai Sibillini al Gran Sasso, ha conosciuto 5 terremoti distruttivi. Il tutto in un territorio ristrettissimo, che fin quando non ti trovi davanti la sagoma del Vettore non sembra sia in preda alle convulsioni che si documentano, a centinaia. Tutto il giorno e tutti i giorni. Per strada, andando verso Amatrice per la via di Cittareale, sembra che qualcuno si sia divertito a seminare sassi. Una specie di gigantesco Pollicino che si segna la via di casa. La zona industriale di Norcia è disastrata, i capannoni sembra siano stati sollevati in aria e ributtati giù con tutta la violenza possibile. Qualcuno sul web parla di scossa potente il quadruplo della bomba di Hiroshima. Le immagini delle nuvole di polvere che si alzano dalla costellazione di paesini della Conca danno l’idea della simultaneità del danno. Per Amatrice è stato il terzo round distruttivo, che completa l’opera di azzeramento iniziata ad agosto. Il panorama spettrale della città martoriata ha perso le sue torri gemelle: prima è caduto l’edificio rosso della banca, che spiccava tra i mucchi di rovine, ancora apparentemente intatto. Poi ha ceduto la torre civica, senza però abbattersi del tutto a terra. Un po’ come la speranza della gente, quella che è rimasta e che festeggiava, qualche giorno fa, la riapertura di un bar all’uscita del paese, sulla strada che sale verso Campotosto. Un momento di speranza scacciato via dalla nuova coppia sismica, che ha ridotto in poltiglia quasi tutto quello che era ancora in piedi. Accumoli, o quel poco che ne rimaneva. Arquata, dove Della Valle voleva costruire un nuovo stabilimento, ora completamente rasa al suolo. Come si fa a continuare a sperare se ogni tentativo di rialzare la testa finisce annichilito dai colpi della Bestia?

La via che da Arquata risale i fianchi del Vettore passa da Piedilama e arriva a Pretare. Il paese delle fate, che secondo la leggenda avrebbero segnato il sentiero sotto la cima della montagna che oggi le immagini ci mostrano come la spaccatura da cui origina tutto il male. Più su, verso nord e sopra Visso e Castelsantangelo, da dove è cominciato il nuovo sisma, c’è il monte della Sibilla, dove si recavano i negromanti per celebrare i loro riti oscuri e dove si poteva apprendere l’arte della divinazione. Servirebbe, oggi, a prevedere gli sviluppi di questo poderoso risveglio della montagna, che minaccia di spostarsi verso nord, dove già ha segnato centri importanti come Camerino, Matelica, Castelraimondo, Sanseverino, facendo crescere il numero di sfollati che, terrorizzati, temono per il loro futuro. I colori dolci dell’autunno stanno per lasciare il passo al gelo. C’è da mettere al sicuro le bestie, per chi ancora ci lavora. A Norcia si vive di allevamento e norcineria, più in alto si coltivano i cereali, come a Castelluccio, il paese-gioiello che non esiste più. Di là dalla montagna, tra Accumoli e Amatrice, l’eco dei nuovi crolli scuote paesi vuoti, dove lo spopolamento invernale si è sommato all’esodo dei superstiti colpiti dal sisma. Resistenza da una parte, voglia di rinascita dall’altra.
Davanti, un inverno da passare, che fa paura.

La pietra della mia casa è segnata dalle crepe, ma non crolla

Scritto per Emergenze l’1/11/2016

C’è un punto, sulla strada che porta al mio paese, da cui si scorge, per la prima volta, la mia casa. La via sale vertiginosamente, dai 1000 metri ai 1240 in 6 chilometri. Ogni tanto c’è una rampa micidiale, ma comincia con un discesone, lungo almeno un chilometro.
Il primo paese che incontro uscendo dalla Salaria è completamente tritato, ruderi dell’ultima scossa ammucchiati accanto a quelli della prima. Niente che somigli a un edificio ancora in piedi. Dopo la picchiata, comincia l’erta, dal ponte del vecchio mulino dove si portava il grano a macinare, anche di nascosto, durante la guerra, per evitare che i fascisti lo requisissero. Il mugnaio regalò a mio nonno una Divina Commedia in formato rilegato extralusso illustrata da Gustave Doré che adesso sarà incastrata in qualche dove, dentro la casa che chissà se c’è ancora.

Spingo la macchina sulle rampe, arroto deciso le curve, impaziente. Risalgo dalle quote basse del ponte sulla Neia verso la luce, e curva dopo curva avvisto la meta, ancora lontana. Tengo gli occhi sulla strada ma cerco di intuire cosa c’è e, soprattutto, se c’è.

Mi si gelano le gambe quando, in mezzo al paese, non vedo quel cubo grigio di pietre ribboccate a cemento. Mi prende la tensione e la scaccio, penso a un’altra cosa, penso alla strada, penso ai paesi che incontro e che hanno mucchi di pietre rotolate da ogni dove ammassate a bordo strada. In piazza un gruppetto di irriducibili ha allestito un tavolo  con un paio di panche, davanti ai camper che fanno da alloggio già da troppo tempo.

Mangiano e sorridono, perché bisogna ridergli in faccia, a questo destino che si crede il padrone. Proseguo nel bosco rosso e salgo, salgo col cuore pesante, sento le sopracciglia e le guance che vogliono scendere giù più che possono.
Arrivo al Girone e guardo il Gran Sasso, che se ne sta lì azzurro e galleggiante, insieme ai suoi amici, alla Maiella, e prima alla Laga, e prima prima al Vettore che giura, da lontano, che non ci odia, e che la faglia lui non l’ha manco vista. Dice, ma non gli crede più nessuno.

Io avanzo, curva dopo curva. La strada è gibbosa ma pulita. Le foglie rosse. I marroni, caduti, dentro ai ricci. Il cielo blu. Dalla curva delle Cesi la vedo. Mi ci confondo, ma la vedo. C’è. Rotta scarrupata segnata da crepe con le finestre aperte la schiena gonfia. Ma è in piedi. Sia lodato il Mastro Muratore che chissà quanti secoli fa l’ha costruita. Ripenso all’atto del Notaro Borbonico che ha registrato la proprietà nel 1857 e mi chiedo mentalmente di quanto tempo più vecchia possa essere. Inagibile ma viva, che ti dice oh, questo è il posto vostro, padroni miei, io sto qui per tenervelo e per questo non crollo. Venga qui il Vettore con tutti i suoi 6 punto cosa, io sto in piedi e vi proteggo finché posso.

Sulla parete dietro ha uno spacco largo un braccio, o anche di più. Ma dentro non si vede, il muro è spesso. E’ venuto giù il pagliaio, anzi no. Il tetto ha tenuto, la struttura portante lo sorregge. Due pareti esterne hanno ceduto nel tratto più lungo, le pietre si sono slegate e hanno fatto due mucchi polverosi sotto. Il pavimento che divide il sopra dalla cantina che sta sotto, immagino, non c’è più.

Si vedono gli attrezzi di mio nonno, i rastrelli di legno, i manici intagliati. Fuori, gli anelli a cui si legavano le bestie, il forno del pane, il pollaio e la stalla del maiale. Li hanno costruiti perché durassero e bastassero a sostenere una famiglia intera. C’era un piccolo cassone con dentro il grano, il forno annesso, una piccola rientranza bassa per le galline, una stanzetta col trogolo per il porco, un paio d’orti, un albero di noce, un pero, tre abeti piantati da mio zio che mi ha lasciato in eredità il nome.

Se demolire o no, adesso, lo deciderà chi è preposto a farlo.
La casa, noi, l’abbiamo lasciata sola. Ma lei non ci ha tradito.