Reddito d’inclusione. Sarà un bene?

big_reddito-di-inclusione-socialeLa misura è rivolta alle famiglie con minori, disabili, donne in gravidanza a quattro mesi dal parto e over 55 disoccupati ed evrà un tetto di 485 euro al mese (5.824,80 l’anno). Destinatari, i nuclei con Isee inferiore ai 6000 euro, aventi un valore del patrimonio immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non superiore a 20.000 euro e un valore del patrimonio mobiliare, non superiore a 6.000 euro. Sogli che può salire di 2000 euro per ogni componente il nucleo familiare successivo al primo, fino ad un massimo di euro 10.000. L’importo del sostegno è crescente a seconda del numero dei componenti della famiglia, partenza da 187 euro fino a 485. Le domande potranno essere inviate a partire dal 1 dicembre, mentre il sussidio partirà dal 1 gennaio. (Repubblica.it)

La lotta alla povertà è sacrosanta e va combattuta fino alla fine. Il reddito di inclusione, però, è una misura che potrebbe avere delle controindicazioni grosse. Nelle intenzioni è una buona cosa, anche se non si capisce bene (o almeno non lo capisco io) come mai da ogni agevolazione debbano rimanere esclusi i soggetti che non hanno figli o quelli che non hanno formato un nucleo familiare. A vedere bene, uno dei motivi principali per cui la gente non fa figli e non mette su famiglia è proprio il fatto di non possedere adeguate risorse.

Resta però il problema del lavoro e l’introduzione di un reddito d’inclusione, a occhio, sembra una misura che potrebbe acuire il problema della disoccupazione. Non tanto perché costituisce un reddito alternativo, quanto perché potrebbe stimolare pratiche già abbondantemente in atto, che sono un problema cronico. Il destinatario di un reddito d’inclusione, come già il cassintegrato e il percipiente indennità che costituiscono ammortizzatori sociali, è il soggetto perfetto a cui affidare incarichi in nero.

A maggior ragione se percepisce un trattamento di famiglia, legato alla presenza di minori, disabili eccetera. L’integrazione percepita dallo Stato risolve due problemi: quello dei costi legati a un rapporto di lavoro regolare e quello di un livello salariale consono, ancorché in nero. Sapere che tu prendi 500 euro al mese di reddito d’inclusione invoglierà qualcuno a offrirti un salario più basso; oppure tu lo accetterai, avendone bisogno, tagliando fuori chi senza quei 500 si trova sotto il livello di sussistenza.

Si rischia, insomma, di rendere ancora più appetibile il lavoro nero. In più, l’aver messo mano a un simile sistema di inclusione potrebbe far passare in secondo piano il problema della disoccupazione, avendo risolto in prima battuta la questione del salario. Non ti si dà lavoro ma hai comunque il tuo argent de poche. Fermo restando che il lavoro, oltre a essere un diritto, è anche l’elemento fondante, Costituzione alla mano, della Repubblica Italiana.

Perciò una misura buona nelle intenzioni può rivelarsi un boomerang, alimentare ancora di più la distanza sociale, disincentivare l’iniziativa privata da una parte e il rispetto delle norme che regolano i rapporti di lavoro dall’altra, incitare gli imprenditori senza scrupoli a reclutare manodopera in nero e a contrarre ancora di più l’offerta salariale, potendo contare sul puntello statale.

Già m’immagino chi arrotonderà l’assegno d’inclusione facendosi sfruttare dal caporalato per quattro soldi, ancora meno di quelli che oggi vengono elargiti ai clandestini. Si rischia di cronicizzare l’emergenza lavoro e di aumentare a dismisura i confini di quella povertà che si dice di voler combattere, ingrossando le fila della manodopera fantasma che avrebbe addirittura interesse, a questo punto, a essere invisibile.

Ricordo che se un’azienda assume manodopera in nero commette un’infrazione sanzionabile. Se un lavoratore in nero percepisce indennità legate al suo stato “ufficiale” di disoccupazione dichiara il falso e commette un reato, come quando percepisce indebitamente indennità legate allo stato di disoccupazione o alla Cassa Integrazione.

Infine si crea una zona opaca in cui potrebbero generarsi rapporti di lavoro precari, se per rientrare nei limiti previsti dal reddito d’inclusione fossero compatibili redditi da rapporti di lavoro autonomi o parasubordinati di natura occasionale, di limitato impatto economico. La tentazione di ridurre durata, entità, classificazione del rapporto sarebbe continuamente in agguato.

Per evitare di iniziare un nuovo capitolo nero occorrerebbe una vigilanza puntuale, efficiente, capillare. La stessa che serviva per evitare l’abuso dei voucher, o quello dei CoCoCo, o tutti quelli messi in atto negli ultimi decenni. Sembra un film già visto, e questo lo finanzia direttamente lo Stato. Con le fanfare che suonano marcette trionfali preelettorali.

Black friday

BlackFridayPromotions

Questa storia del Black Friday ci ha preso la mano, ammettiamolo. Ma non per l’operazione in sé, quanto perché è l’ennesimo segno di un cambiamento rispetto al quale eravamo/siamo impreparati. Una cosa travolgente che ancora non ha lasciato tutto il segno che poteva/potrebbe lasciare.

Il punto è che compriamo tutto quello che possiamo comprare, sul web e fuori, nel momento in cui ci rendiamo conto che l’offerta ci concede sconti importanti. Fin qui non ci sarebbe niente di male, ma spesso compriamo roba che non ci serve. E, per quanto costino poco, non ha senso avere in casa 700 penne biro, un cassetto di calzini per fare sport quando manco si fa sport, piatti e bicchieri che bastano per la refezione di una Caritas e tante altre cose. Tante. Troppe.

In più, l’operazione ammazza-prezzo ha radici precise e profonde in un riassetto globale dell’economia bassa, quella basata sulle dinamiche salario-borsellino, che determinano il potere d’acquisto che abbiamo come individui. Se da una parte Amazon, Ikea, H&M, Decathlon, GDO e compagnia hanno incrementato il nostro potere di acquistare cose utili o anche (e soprattutto) superflue, dall’altra questo ha avuto ripercussioni sui nostri salari, in caduta libera da decenni, e sulla nostra capacità di collocarci sul mercato del lavoro, diminuita drammaticamente per una serie di motivi che origina sempre dalla stessa fonte.

Lo stesso accade ai bottegai, tagliati fuori dalla capacità della GDO e dei colossi internettici di mantenere rapporti di lavoro formalmente corretti abbassando i prezzi in modo drastico, che rende impossibile reggere il confronto. Ai piccoli esercizi si lascia la nicchia di una “qualità” che diventa una pura astrazione se il prezzo da pagare per averla è insostenibile per la gran parte dei consumatori, le cui sempre più magre risorse vengono drenate continuamente dai colossi che tirano le fila dello shopping mondiale.

Si tratta di un ingranaggio distruttivo, che aumenta e capillarizza la polarizzazione della ricchezza, dividendo il mondo in eserciti di poveri, i più fortunati dei quali possono avere lo stesso letto svedese e le stesse sneakers in qualsiasi continente, sovrastati da piccole moltitudini di benestanti o ricchi che hanno accesso alle cose belle e buone che costano molto. A completare il quadro l’indebitamento: comprare una casa di bassa qualità 25 anni fa costava 100 stipendi da impiegato medio, oggi si viaggia sul doppio o sul triplo. Se si ha la fortuna di avere un contratto a tempo indeterminato.

Rispetto a questo fenomeno, che è globale, non possiamo difenderci: siamo nel mirino di chi ci offre salari sempre più bassi, e li giustifica attingendo manodopera meno qualificata, creando un piccolo esercito di disoccupati di alta qualità, e di chi monopolizza ogni tipo di mercato avendo dalla sua la possibilità di stressare i prezzi e renderli appetibili per chi ha sempre meno soldi in tasca.

L’effetto collaterale di questa dinamica perversa è la standardizzazione di certi consumi, la modalità di fruizione della cultura e del consumo, l’inaridimento sempre più allarmante delle possibili fonti di lavoro, e quindi di reddito, per la gente. Il paradosso è che a salari che crollano corrispondono consumi che crescono, spesso non sostenibili: un gigantesco dissipare ricchezza, non tanto e non solo economica quanto di risorse fisiche del pianeta che non sono rigenerabili e alimentano quella scarsità che è alla base di un modello economico suicida.

Che si basa, appunto, sulla scarsità ma, paradossalmente, tende ad azzerare i prezzi per dare la sensazione di un’abbondanza senza precedenti, che sembra poter non finire mai.

Io questo venerdì non compro niente, nel mio piccolo non partecipo. Ho perso un po’ di tempo a cancellare la mia iscrizione a mailing list e a bollettini pubblicitari on line. M’impegnerò ad abbassare il numero medio di mutande, calzini, camicie e magliette che ingolfano il mio armadio, cercherò di non acquistare compulsivamente cose che posso reperire in altro modo. Sono solidale con quei commercianti che,  pur di portare a casa un incasso in più, s’inventano di tutto, perché mi rendo conto del loro dramma, ma penso che non siano loro le vittime più meritevoli di tutela di questa situazione: a rimetterci di più è la gente che viene chiamata a consumare ma non più a produrre.
Fin quando non crepa.

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Vita digitale

Trent’anni fa (quasi 31) mi sono seduto per la prima volta davanti a un computer vero. Uno strumento di lavoro, intendo, non un Commodore con le cassette per giocare.
Era un accrocco NCR col doppio floppy da 5 pollici e un quarto. Da una parte caricavi il sistema operativo, dall’altra salvavi le tue cose. Per elaborare le paghe dovevi avere cognizioni base di Cobol, e stampare a modulo continuo era un’impresa per virtuosi, che in genere si faceva in due, uno lanciava la stampa e uno controllava che l’ordigno/stampante non si mangiasse i preziosi cedolini vidimati.

L’hardware costava cifre spaventose, diventava obsoleto in pochi mesi e non c’era niente che fosse user friendly. Si lavorava ancora molto con la macchina da scrivere. Due anni dopo, nemmeno, già avevo macinato un 286 e avevo in mano un 386, lavoravo col DOS, facevo sciocchezzine in Basic, programmavo macro complessissime su Lotus 123 e usavo normalmente Wordstar, giocavo a scacchi e alle olimpiadi, cominciavo a flirtare con Windows 3.1 che pareva bello ma stranamente complicato. Il tutto in collegamento remoto con un IBM S/36 che pareva inaccessibile.

Poi ho scoperto il Macintosh, con un SE, poi con un classic e poi ancora con un LC. La stampa laser. Tra system 6 e system 7. Una vera interfaccia user-friendly, l’alternativa alle contorsioni di Windows, che cercava la rimonta ma rimaneva sempre indietro. Ho visto nascere Excel e Word. Intanto avevo cominciato ad avere un PC a casa. Il primo fu un Celeron. I prezzi crollavano. Studiavo all’università da dopolavorista ed ebbi in dote un indirizzo email, mai usato. Poi imparai a fare qualche scemenzina in HTML. Andai su internet con un modem 14.4. Leggevo su usenet i newsgroup con i risultati dei meeting di atletica. Feci un sito su Amatrice e le sue Ville ma mi fermai a un livello superficiale, perché m’ero perso il libro del Massimi con i cenni storici sulle frazioni, e mica era tutto a portata di mano come adesso. Intanto mi smazzavo il mio lavoro su AS/400.

Poi, internet. Ho visto morire Mosaic e nascere Netscape. Ho usato le prime versioni di Dreamweaver, Eudora per la posta elettronica, mi sono scornato con Explorer e Outlook, ho preso spazi gratuiti dove ho pubblicato siti, ho gestito per anni una comunità come Lazio.net, all’inizio fatta di poche decine di persone che si conoscevano, alla fine di troppe centinaia. Una mia amica mi ha convinto a tenere un blog. L’ho fatto. L’ho chiuso. Ne ho fatto un altro. L’ho chiuso. Avanti così, ormai sono al quarto ma sono diventato più stabile, ho smesso di accendere e spegnere luci in giro. Ho provato tutti i social media prima ancora che si chiamassero così. Alcuni ho continuato a usarli, altri li ho lasciati lì, altri ancora li uso saltuariamente. Ho anche pubblicato un libro sul web.

In tanti anni ho assistito per lavoro tante persone che sapevano usare meno di me i supporti tecnologici, imparando da quelli che li sapevano usare di più. Ho visto gente che ha imparato in fretta e gente che non riusciva manco ad accendere il PC, ma magicamente trovava la strada per infettarsi in giro per pornazzi. La gente usa la tecnologia senza rendersene conto, poi ritiene che chi la usa consapevolmente sia un incrocio tra Von Braun e Leonardo. I computer sono roba per supercervelloni che siccome per farci le cose si divertono non vanno pagati. I siti si fanno praticamente gratis, perché lo spazio non costa, il dominio ancora meno, e lo smanettone lo paghi a cheeseburger. Quando ti avanza qualche spiccio.

Se un bambino ancora analfabeta sa già usare un’interfaccia vuol dire che è un genio, non che l’interfaccia sia semplice. Se il nostro rapporto con la tecnologia è questo non possiamo meravigliarci quando ci dipingono come un paese di seconda schiera, dove la gente chiede un router vintage perché arreda e pretende che il tecnico si ricordi lui la password.

Per usare un pc o un telefono ci vuole solo un po’ di pazienza. Imparare a usare certi programmi bene ti riesce soltanto se ci lavori o li usi spesso, perché si impara affrontando un problema e trovando la soluzione, oltre che facendo corsi che durano tante ore. Nessuno si siede davanti a un pc e lo fa cantare. Se vuoi imparare ti devi spendere, come per qualunque altra cosa. Anzi, siccome i mezzi sono in continuo divenire, ti devi spendere tutti i giorni, come fa un musicista. Non è un’arte che la impari ed è finita là. Ha una storia che non è indispensabile conoscere, perciò oggi puoi addirittura insegnare quello che è attuale senza sapere cosa c’era prima, se non è necessario.

Non ho trovato un cane, in tanti anni, che desse la giusta importanza alla tecnologia dell’informazione, sul lavoro. Nessuno che capisse che una macchina diventa vecchia anche se è nuova, se l’evoluzione tecnologica la rende superata. Per molti un PC è come una Panda. Forse ci si può ragionare su oggi, ma vent’anni fa non era così.

Avessi dato retta a mio cugggino, mi sarei dovuto mettere a studiare informatica quando sono andato alle superiori. Era il 1976 e non capii nemmeno bene di cosa stava parlando, solo che la scuola che mi consigliò stava dall’altra parte di Roma. Aveva ragione da vendere. Ci sono arrivato dieci anni dopo e il mondo era già da un’altra parte: quei dieci anni per me avrebbero cambiato qualche cosa.

 

Italia sotto terra

e8cef943d5b478c06e3fac8c942427b6--tuono-football-memorabiliaSeguo la nazionale dal 1970. Nel 1966 ero troppo piccolo e non ho vissuto l’eliminazione umiliante firmata dall’odontotecnico coreano Pak Doo Ik.

La prima partita dell’Italia che ricordo, che poi è la mia prima partita in assoluto, è Italia-Messico 4-1, Toluca, 1970.
Seguita da fanfare di clacson, poi da ItaliaGermania4-3, ulteriori fanfare, Riva Rivera Brasile sotto terra.
Poi, Pelé.

Sono passati quasi 50 anni e non abbiamo mai saltato un mondiale: nel ’74 fummo eliminati dalla Polonia. Ci rimasi malissimo. Eravamo dati tra le favorite ma il calcio era cambiato, la gente correva e Valcareggi non se n’era reso conto.

La nazionale allora era importantissima, teneva banco ovunque, le convocazioni erano attese in religiosa trepidazione, i calciatori nel giro erano pochi ed era motivo d’orgoglio averne uno nella propria squadra, e se non lo chiamavano erano pena, ansia, scorno e malumore.

Odiavo Bearzot per il poco spazio che concedeva a Giordano e Manfredonia e per l’ostracismo verso D’Amico. Ma tra ’78 e ’82 ci fece felici: già in Argentina sembrava si potesse vincere, la squadra si perse anche per colpa della formula assurda con il doppio girone e finì quarta meritando molto di più, come dimostrò poi in Spagna, trionfando.

Noi vivevamo il mondiale come una festa, la gente addobbava le strade con nastri tricolori, le partite venivano seguite in gruppo, le danze duravano fino all’alba. La notte dell’11 luglio ’82 fu degna del Carnevale di Rio.

Poi il calcio è cambiato, siamo cresciuti, l’86 è stato penoso: l’entusiasmo è sceso per rifiorire nel ’90, mondiale in casa, squadra zeppa di talenti gestita non al meglio da Vicini, eliminata da Maradona in semifinale per una mezza papera di Zenga su Caniggia e per il cornutone pararigori Goicoechea.

Pianti dopo le notti magiche, ripetuti quattro anni dopo, ancora rigori, stavolta in finale col Brasile e il fegato magnato perché Sacchi escluse Beppe Signori, reo di non voler fare l’ala dopo aver segnato 7500 gol in campionato. Con lui accanto a Baggio avremmo raccolto Romario col cucchiaino.

Nel ’98 uscimmo con la Francia ai rigori e loro vinsero poi il mondiale. Nesta si fece male, Vieri fece il fenomeno e lo comprò poi la Lazio. Maldini come CT era abbastanza tragico anche lui, ma mai quanto il Trap che guidò rosario alla mano la disastrosa spedizione coreana del 2002.

Nel 2006 Lippi ci portò a una vittoria stupenda, ma era ormai impossibile entusiasmarsi come a vent’anni. La nazionale lottava contro il calcio ipertrofico che si gioca fuori dal campo, quello dei campioni di cartapesta. Da allora solo passi indietro, seguiti con distratto dolore, o con dolente indifferenza. Fino a oggi.

Nel 2018 non parteciperemo. Non succedeva da 60 anni. Non mi era mai successo. Se il calcio fosse ancora quello di una volta tutti i responsabili del disastro sarebbero marchiati a fuoco come capitò a Mondino Fabbri nel ’66.

Oggi le cose vanno diversamente e le voci televisive hanno già abbondantemente assolto i protagonisti di cotanto scempio. Almeno i calciatori, perché il presidente federale e il CT hanno pensato bene di non presentarsi alla stampa. Almeno fino a quando ho seguito, cioè fino a dieci minuti fa.

Prendersi le proprie responsabilità sarebbe doveroso quando si riscuotono milioni e si maneggia un bene collettivo di proprietà degli italiani. In questi anni la nazionale è diventata un fastidio per molti, a cominciare dalle squadre di club, che non gradiscono si distraggano i superpagati eroi delle domeniche di campionato e dei mercoledì di coppa.

I quali dovrebbero sapere che la gloria calcistica passa soprattutto dai mondiali: tutte le scelte dei calciatori nel giro della nazionale dovrebbero essere fatte in quest’ottica. Invece c’è gente che si va a prendere milioni facili nei superclub, accontentandosi di giocare scampoli di partita che ne ritardano/fermano la crescita e si ripercuotono, poi, sul potenziale della rappresentativa azzurra, la cui caratura dovrebbe essere un moltiplicatore di ricchezza, se si pensa agli ingaggi dei nazionali e al valore del campionato nel complesso.

Quelli che dovrebbero ripensare il movimento non parlano, e certo quando lo hanno fatto non hanno dimostrato acume né qualità. Sono lì per caso e non sanno quanti danni stanno facendo. Per noi la frittata è fatta, nel 2018 seguiremo i mondiali da neutrali.

Aspettando che qualcuno riprenda in mano i destini del calcio italiano, che da bambini ci incendiava il cuore, oggi rimasto freddo davanti alla sceneggiata dell’inno cantato a squarciagola dai calciatori facendo smorfie della serie morituri te salutant.

E infatti, ciao.

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Santi e morti

Halloween-1 Era più facile crederci quando era difficile.

Ho passato un paio di giorni a pensarci, mentre leggevo di Halloween, dei Santi e dei morti e mi passavano davanti agli occhi tanti ricordi.

Ce l’hanno raccontata, a noi, fuori tempo massimo, perché abbiamo fatto prima la conoscenza con la mancanza e poi ci hanno spiegato, a posteriori, che si va in qualche bel posto quando si muore.

Non mi è parsa convincente, la storia, visto che per chi rimaneva la vita era una bella merda, ma comunque non c’erano alternative alla verità rivelata. Loro andavano lassù, da dove ci proteggevano, benché fosse chiaro che sarebbero stati più efficaci quaggiù.

Siccome viviamo tempi moderni, ancorché duri, chi ci ha inculcato certe verità vere ha finito per crederci poco anche lui, i miliardi di mucchietti d’ossa seppelliti in giro per il pianeta non sembrano ansiosi di resuscitare e l’idea che uno si fa, col passare del tempo, è che non succeda granché dopo. Solo un meccanico precipitare allo stato elementare.

Non è una considerazione amara, anzi: arrivare a una simile conclusione mi fa apprezzare di più una festa cretina come quella di Halloween, che allaccia inconsapevoli legami con tradizioni antiche e ci ricorda che è il caso di godere fin quando ci si riesce.

Chi sa divertirsi vive meglio, che è un po’ come vivere più a lungo.

I paninetti e i dolci dei morti sono finiti. I nostri ricordi mantengono vivi quelli che non ci sono più e se ne sentiamo la mancanza ci conviene ricordare più forte, farci caso.
Non perdere mai la memoria.

Sopravvive chi lascia un segno, se chi resta quel segno se lo tiene nel cuore.