Il Paese dei Coppoloni

capossela

Il Paese dei Coppoloni è un bel libro. Vinicio Capossela è un personaggio interessante, fin da quando esordì, col suo All’una e trantacinque circa. Sono passati 25 anni che si ritrovano tutti in questo lavoro, scritto in un lungo arco di tempo o rievocando scenari già abbondantemente battuti nei suoi dischi, soprattutto Camera a Sud e Il Ballo di San Vito, ma anche nel simpatico percorso con i dilettanti della Banda della Posta.

Capisco le polemiche sulla candidatura al Premio Strega, ma di queste cose m’importa poco. M’importa il racconto che Vinicio fa su cose che mi trovano sempre in sintonia: la vita paesana, i balli e le musiche popolari, i tesori nascosti del dialetto, i personaggi più insignificanti e miseri attraverso i quali si raccontano storie destinate a sparire, o meglio salvate dall’estinzione e consegnate alle pagine di un libro.

Non è un capolavoro e non è nemmeno una lettura facilissima, con un linguaggio buffo, che inventa, riesuma e/o piega espressioni dialettali a mazzi, fino all’eccesso, parlando un gergo che solo in parte si chiarisce col vocabolarietto finale.

Più che un libro, insomma, un piccolo universo non privo di profondità. I momenti migliori sono quelli dove Capossela eccelle: il racconto del gran ballo collettivo, i movimenti delle quadriglie sapientemente arricchiti di pennellate che sottolineano la carnalità tutta pagana delle feste di paese, che si esprime appieno in queste sarabande collettive, a metà strada tra la promessa sensuale e lo sfogo liberatorio.

Un libro che parte con una rassegna di personaggi in parata e finisce per mischiarli nel gran ballo dello sposalizio. L’ho letto d’un fiato e con grande gusto. Consigliato a chi ama Capossela, le feste di paese, i balli contadini, le storie di paurìe, fantasmi, streghe e osterie, suonatori e artisti, amori agresti e personaggi buffi. All’incontré!

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