Centocelle

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Se la guardi sulle mappe, Centocelle è un rettangolo, o un quadrilatero composto da due trapezi sovrapposti, inscritti nello spicchio di Roma che parte da Porta Maggiore e si dirama verso oriente, con la Prenestina a nord e la Casilina a sud a fare da limite, e lo Stradone, vecchia Subaugusta, oggi Viale Palmiro Togliatti, a tamponare a Est. Un’area piccola, poggiata sull’Aeroporto di Centocelle e l’antistante stazione, cresciuta tra la chiesa di San Felice, immortalata da Pasolini in Accattone, e Piazza dei Mirti, agora intorno alla quale crebbero i primi non luoghi: un grosso mercato rionale, ora migrato a ovest, e l’anello con cui il tram, fatto capolinea, tornava verso la Casilina e la Città. Una rete di strade ortogonali a riempire l’area, manco ci si fosse messi con una riga a disegnarla sulla tovaglia di carta di una pizzeria di quelle storiche, con i tavolini all’aperto e la ruota del barroccio appesa fuori.

Tre cinema, c’erano, e un paio di teatri. Adesso resiste il Broadway, multisala passata da Vittorio ar Viperetta, senza scossoni nella programmazione divisa tra cartoni, cinepanettoni e armi letali varie. C’è un centro commerciale un po’ piccolo, sufficiente però a portarsi via un pezzo di struscio da Via dei Castani. Ragazzi col petto in fuori, bicipiti palestrati, tatuaggi e sopracciglio modellato, che non suonano, però da presa di distanza, semmai da aggiornamento del villo anni ’70 emergente sotto la camicia, scarpe a punta e pantalone scampanato, capello lungo che copre le orecchie, eccesso di lacca inconfessabile e acqua di colonia dozzinale, dopobarba Mennen, mentre le ragazze s’inguainano nei leggings anche quando non dovrebbero, portano le zeppe e le unghie con french e stelline, tatuaggi e piercing, trucco spesso, cose così.

Il linguaggio è arrotato, modellato per come si lanciava con una mano a lato della bocca, fusione mirabile di suoni e motti che assumono una plasticità tutta loro: chettoodicoaffà, lo stereo a palla, che percuota e pompi, la smarte, la moto lanciata a velocità esagerata per vie traverse, ma non perché corra, piuttosto perché faccia rumore e richiami l’attenzione. Le macchine vecchie, scassate, che sembrano tenute insieme con lo scotch. I poster de Checco nei bar che fanno da sfondo, insieme alle scritte sui muri inneggianti a Lulic.

Il senso del particolare greve e pacchiano che definisce tutta un’estetica periferica, tra colonne romane di polisterolo, abbronzature al limite dell’afro, trucco pesante e grandinate di e amò a fare da intercalare, insieme ai desueti tooggiuro e dicofermete, si rinviene nelle botteghe di Via dei Castani, che è il corso perché Centocelle è come una città a sé stante, con le piazze principali e la via dello struscio, che si fa a piedi oppure in macchina, da San Felice alle Scuole Bianche, facendo fischiare le ruote nei pochi tratti in cui si spiccia il serpentone.

Tutta uno sportello bancario e una farmacia, chissà perché, con i cartolai che si spacciano per librai ma non gl’interessa quello che hanno sul bancone, le stese di griffe di borgata dei senegalesi, i carabattolai cinesi, le mille botteghe dei fruttaroli cingalesi cresciute come funghi dopo il trasloco biblico del vecchio mercato, il più grande di Roma, dicevano, grande come i toponi che lo battevano di notte, insieme ai tossici che cercavano rifugio per trovare un momento di pace.

Quartiere denso, che suona pieno, zeppo di gente che non si spaventa del melting pot immigrato, semplice aggiornamento dell’impasto di dialetti abruzzesi, umbri, marchigiani e meridionali che ne ha riempito gli interstizi dal dopoguerra in poi. Gli americani arrivarono dalla Casilina, dove passa ancora il trenino di Pantano Borghese, e sotto all’aeroporto e tutt’intorno c’era tutta una rete di cunicoli, che collegava cave di pozzolana, catacombe e tane di fetenti, partigiani e fungaie, ricoveri di battone un po’ scamuffe.

All’estremo nordest il Forte Prenestino, prima mimetizzato tra le fronde, poi restituito alla vita dalla stagione sociale. Autonomie temporanee, concerti fragorosi, cani tigrati, incroci improponibili, punkabbestia, anarchici, sbandati e sconvoltoni.  E tutto gli puoi dire, al Forte, meno che sia anche lui un non luogo. La paura dei vecchi sono i cinesi che si prendono tutto. Non si sa cosa: il destino da quartiere dormitorio viene messo in discussione da una piccola serie di localini interessanti, verso la Prenestina, lungo via Tor de’ Schiavi. Non abbastanza da fare concorrenza al Pigneto, che però è sempre stato molto peggio di Centocelle.

Di là dal semaforo, l’A24, prima Via Pisino e poi Colli Aniene, e a destra verso la Collatina, Tor Sapienza e di qua il Mattatoio, che squaderna le mignotte fitte fitte, lungo la Togliatti, tornando verso il quartiere, salvo la domenica allestire la sua Porta Portese alternativa. A Centocelle le cose peggio stanno in periferia, il centro brulica di vita: confidenza poca, la mania recente di una sagra dietro l’altra, dedicata a cose che non c’entrano una mazza: la sagra del tartufo o quella dell’abbacchio che poco hanno a che fare con un quartiere che un giorno contava i suoi pasta all’uovo e i suoi vini e olii, elementi del paesaggio come il venditore di fusaje, quello di giornaletti usati e il gelataro Baffone.

Adesso, mentre si aspetta che sia pronta la metro, si contano le cacche di cane, mentre le foglie secche svernano, salutano equinozi e solstizi e si ammucchiano con le consorelle dell’anno dopo, ché l’operatore ecologico è preso dalla lettura divinatoria dei cubetti di ghiaccio dello spritz e dei fondi del caffè ar vetro. Eppure l’odore è buono, c’è rumore la notte ma di giorno, d’estate, senti le cicale, mentre affondi i tacchi nell’asfalto che s’ammolla sotto i dardi del sole. I cassonetti raccontano le loro storie di monnezza sparpagliata tutta intorno: un paio di zingaretti spingono una carrozzina tutta storta, piena di stracci, i gatti segnano il territorio schizzando la piscia sui paraurti delle macchine, e il nasone sotto casa, giorno e notte, scandisce il tempo con uno scroscio d’acqua fresca.

6 pensieri su “Centocelle”

  1. Bello, non male. E veritiero. Anche se avrei insistito sulla componente “paesana” di questa ex borgata. Infatti, tra i mille difetti, se ha qualche pregio, Centocelle ce l’ha per via della sua dimensione di periferia con un’architettura che non ha nulla di periferico. Il che’ ha contribuito a tenerla su un po’ meglio delle zone limitrofe.

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  2. Centocelle cambia

    S’agghinda, se fa er trucco, Centocelle
    la Metro ariva ar dunque e lei se sente
    ‘na ‘nticchia più signora, finarmente.
    Ce n’ha de cicatrici su la pelle

    ma er tempo ha camuffato pure quelle:
    palazzi cò l’intonaco cadente
    se danno ‘na parvenza più decente;
    levati ormai li banchi e bancarelle

    de quer che fu er mercato de quartiere,
    sbaraccheno le panche indò ‘na vorta
    li tossici acchittaveno le pere.

    Ce resta er sor Franchino, che se svorta
    dù spicci accattonanno cò mestiere;
    lo chiamo da lontano e lui se vorta:

    Che dice ‘sta raccorta?
    Sta bono, va – me fa – è cambiato tutto
    beccavo mejo allora, ma de brutto!

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